L’attentato di Bengasi, in cui sono morti l’ambasciatore americano e tre funzionari Usa, rischia di condizionare e cambiare il corso della campagna elettorale per le Presidenziali.
Proprio nel giorno in cui l’America sembrava cominciasse a superare, o a digerire se vogliamo, l’11 settembre, il fondamentalismo islamico torna drammaticamente a far sentire la sua presenza. Con i commentatori ancora intenti a raccontare di come l’anniversario (l’undicesimo) della peggior tragedia della storia Americana (e mondiale) si fosse svolto quest’anno maniera piu’ “intima” e contenuta del solito, arrivano le notizie dal Nord Africa. Due attacchi separati a sedi diplomatiche USA in due nazioni Egitto e Libia (entrambe aiutate dall’America a sbarazzarsi dei rispettivi dittatori storici) causati dall’ennesimo pretesto dell’ennesimo insulto – vero o presunto che sia, ma comunque come tale percepito – al profeta Maometto, stavolta sembra da un filmetto indipendente realizzato e messo su Internet da un americano. Prima tocca all’ambasciata del Cairo, dove pero’ la violenza si limita alle solite bandiere date alle fiamme. Poi al consolato di Bengasi ci scappa il morto – anzi i morti, 4 in tutto le vittime di un razzo sparato su un auto, tra le quali l’ambasciatore statunitense in Libia Christopher Stevens nominato da Obama nel 2012 e mandato immediatamente a monitorare la delicata situazione nel Paese nordafricano appena liberato.
Proprio Obama, in coro con il suo ministro degli esteri Hillary Clinton, ha condannato duramente l’attacco. Ieri, dopo l’attacco in Egitto aveva già pronunciato parole durissime seguite però dalla precisazione – col chiaro scopo di non fomentare altre violenze – che gli Stati Uniti non incoraggiano in nessun modo chi denigra le religioni altrui. E’ bastato per suscitare la reazione dello sfidante Mitt Romney, il quale prima di sapere dell tragedia di Bengasi aveva accusato Obama di “preoccuparsi di non irritare i terroristi prima di condannarli”. Pronta la controreplica dalla Casa Bianca – dopo aver saputo della strage. “È inammissibile”, recita il comunicato, “che qualcuno usi un momento cosi’ drammatico per la nazione a fini politici”. Il fatto è che a due mesi dal voto un episodio del genere ha tutto il potenziale di cambiare drasticamente la direzione alla campagna elettorale, specie se – speriamo vivamente di no – avrà ripercussioni in un Medio Oriente con la Siria in fiamme, Israele che guarda all’Iran col dito sul grilletto e una primavera araba che invece di ringraziare i “liberatori” gli ammazza le rappresentanze diplomatiche.
“Gli attacchi sono frutto di piccoli gruppi selvaggi, non hanno nulla a che fare con la Libia come nazione e non cambieranno il nostro sforzo per renderla libera e democratica”, ha puntualizzato la Clinton in una dichiarazione rilasciata in diretta nazionale per trasmettere la quale i network hanno interrotto la loro programmazione mattutina. Ma l’elettore medio americano si sa, e lo sa anche Romney, non va tanto per il sottile. E Mitt Romney appare in Tv subito dopo la Clinton e dopo il dolore e le preghiere di rito per i defunti butta altra benzina sul fuoco: “Non tolleriamo gli attacchi e difendiamo la libertà di espressione garantita dalla nostra Costituzione”. E rincara la dose della sera prima aggiungendo: “La Casa Bianca ha fatto male a non condannare subito gli attacchi e a lanciare segnali ambigui”. Poi conclude lapidario: “Speriamo che la primavera araba non diventi un lungo inverno.”
I commenti a caldo degli analisti Tv non si sentono di dargli tutti i torti: il diritto di parlare liberamente e’ dopo tutto uno dei pilastri su cui si basa da sempre non solo la costituzione ma tutta la società americana. Ma di questi tempi diventa anche una potente e pericolosa arma politica. L’ultima parola come e’ giusto se la riserva il presidente Obama che esce per ultimo. Sceglie di non raccogliere le provocazioni, ricorda le vittime, ribadisce la condanna, promette giustizia e assicura che nessun atto terroristico cambiera’ la direzione della politica estera americana. Poche parole e, a differenza del suo sfidante Romney, niente domande dai giornalisti. Obama sa benissimo che in questi momenti la polemica è un’arma a doppio taglio e lui, al contrario di Romney, ha tutto da perdere. Specie con le bandiere ancora a mezz’asta, sugli edifici pubblici e nei giardini privati, a 24 ore dai rintocchi delle campane a morto che sottolineavano ieri la lettura dei dei nomi delle 3.000 vittime dell’11 settembre 2001.