L’assassinio di Treyvon Martin, ancora impunito, riporta d’attualità la mai sopita questione razziale. Le parole di Obama.
“Se avessi un figlio maschio assomiglierebbe a Treyvon Martin”, ha detto ieri il presidente Barack Obama, unendosi così all’indignazione popolare per il caso che sta catturando, più di ogni altra notizia, l’attenzione dell’America, e stimolando a prendere posizione a riguardo i personaggi pubblici – pochi per la verità – che che non l’avevano ancora fatto.
Treyvon Martin era un diciassettene come tanti che, al ritorno da un supermercato di Sanford, Florida, dove era andato a comprare bibite e caramelle da sgranocchiare col padre durante una partita di basket in TV, si è imbattuto in George Zimmerman, un 28enne capo-ronda di quartiere, volontario, evidentemente troppo zelante, che, scambiandolo per un balordo in cerca di guai lo ha ucciso, dopo averlo seguito, sparandogli con la pistola che portava con se.
Se ci sia stata colluttazione, scambio di insulti o quant’altro non è dato sapere. Per certo si sa che la vittima non era armata e che il carnefice è stato rimandato a casa la sera stessa dalla polizia locale, soddisfatta dalla semplice dichiarazione di aver agito per legittima difesa. Tutto regolare, almeno secondo la legge chiamata “stand your ground”, che in Florida, e in 17 altri Stati, da diritto al cittadino di difendersi da un attacco fisico – dovunque, non necessariamente in casa sua – anche con armi da fuoco.
Perchè, dunque, tanto scalpore? Tanto per cominciare Treyvon (si intuisce dal nome) era nero. E Zimmerman, bianco; o almeno (ispanico adottato da un famiglia ebrea) bianco abbastanza per vedere l’episodio – a monte e a valle – attraverso la lente della mai sopita tensione razziale americana. A monte perchè se Treyvon fosse stato bianco probabilmente Zimmerman non si sarebbe nemmeno insospettito e a valle perchè se, di converso, Zimmerman fosse stato nero (sempre probabilmente) la polizia lo avrebbe tenuto eccome in custodia, almeno fino alla fine di un indagine approfondita (che in questo caso invece sembra sia mancata del tutto).
In America lo chiamano “racial profiling” ovvero la triste tendenza, qui diffusa più che altrove, anche tra le forze dell’ordine, a presumere intenzioni o peggio colpevolezza a seconda della razza o dell’etnia di appartenenza: arabo = terrorista; ispanico = immigrato clandestino; nero = criminale (ladro, rapinatore spacciatore ecc…). Che in questo caso il tema della razza sia centrale è fuor di dubbio. Tanto per cominciare, il fatto, accaduto il 26 febbraio scorso, è apparso sul radar nazionale grazie all’insistenza di un giornalista locale, di colore, che ha continuato per giorni a denunciare la negligenza della polizia in questo sobborgo di Orlando, nei confronti della comunità afroamericana (il 30% circa dei residenti).
Poi, le sempre più affollate manifestazioni di protesta sono generalmente guidate da noti leader afroamericani come il reverendo Al Sharpton o Luis Farrakhan – organizzatore quest’ultimo della marcia di New York dove tutti indossavano, come Treyvon il giorno (piovoso) della sua morte, una felpa col cappuccio in testa alzato. Infine, una serie di politici, afroamericani anche loro, si sono affrettati a fare eco al Washington Post, che ieri paragonava l’omicidio di Sanford, ancora impunito, a quelli altrettanto impuniti in Alabama o in Mississippi che tanto contribuirono a scatenare negli anni Sessanta la stagione delle lotte per I diritti civili.
Tuttavia sarebbe riduttivo catalogare il caso Treyvon Martin come l’ennesimo esempio di America che ancora, nonostante tutto, vede il mondo in bianco e nero.Stavolta oltre alla razza c’è molto di piu’: la nazione intera si sta appassionando al caso e gradualmente – anche un pò aizzata dai media stufi di crisi economica e primarie sempre più mediocri – sta insorgendo al fianco della famiglia Martin nel chiedere un po’ di giustizia.
Se le foto di questo ragazzo con la faccia pulita, in uniforme da football o abbracciato al fratellino, ormai onnipresenti su TV, internet e giornali, stanno turbando un pò tutti è perchè la sua morte è il risultato di un insieme di leggi che, quasi ovunque, permettono, nell’ordine: a qualsiasi maggiorenne di andarsi a comprare senza troppe domande un’arma da fuoco e portarsela in giro a piacimento (il tutto in virtù di un emendamento della Costituzione adottato nel 1791 e ancora oggi intoccabile tabù, pena la perdita di voti ed elezioni); di difendersi a oltranza e con ogni mezzo, a prescindere dal tipo di aggressione e dal luogo in cui ci si trova; di costruire “gated communities” (quartieri “recintati” come quello dove e’ successo il fattaccio), ibridi legislativi di suolo pubblico e privato dove qualunque Rambo di condominio, armato e in borghese ha il diritto – o almeno sente di averlo – di chiedere le generalità a un passante che va a comprare le caramelle, magari, perchè ha il cappuccio della felpa in testa perché piove.
Adesso che tutte le telecamere sono puntate su Sanford, Florida, il capo della Polizia locale si è dimesso, l’Alta Corte Statale ha aperto un inchiesta, addirittura il Dipartimento della Giustizia si sta occupando del caso a livello federale nell’ipotesi che il movente dell’“odio razziale” lo collochi sotto la sua giurisdizione. Ma di Sanford, negli Usa, ce ne sono a centinaia, e quando Obama, (mezzo afroamericano lui, afroamericana la moglie) per esprimere solidarietà alle richieste di giustizia della famiglia immagina un figlio maschio che assomiglia a quel povero diciassettenne ucciso un mese fa, non ha ragione solo in termini di fattezze e di tonalità cromatica. Il fatto è che nell’America di oggi – e non solo nel profondo Sud – Treyvon Martin potrebbe essere, veramente, il figlio di chiunque.