A giudicare dalle immagini dei Repubblicani giubilanti nel famoso Rose Garden dietro la Casa Bianca sembrerebbe l’alba di una nuova era, l’inizio di una rivoluzione conservatrice. E invece…
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A giudicare dalle immagini – frotte di Repubblicani giubilanti nel famoso Rose Garden, il giardino delle Rose nel retro della Casa Bianca, tutti, o quasi tutti (come gia’ qualcuno ha fatto notare) di razza bianca e di sesso maschile – sembrerebbe l’alba di una nuova era, l’inizio di chissa’ quale cambiamento epocale o rivoluzione conservatrice.
Invece i festeggiamenti, volutamente pubblici – anzi addirittura ostentati – da un presidente alla disperata ricerca di un risultato – qualsiasi risultato – positivo, riguardano una semplice vittoria alla Camera dei Rappresentanti, risicata, risicatissima, e oltretutto ottenuta al terzo tentativo, dopo un mese di estenuanti e politicamente costosi negoziati.
Certo l’approvazione della riforma sanitaria che, come da slogan elettorali, “rigetta e rimpiazza” quella di Barack Obama datata 2010, e’ comunque una vittoria per Donald Trump: specie se si considera che nei simbolici primi cento giorni di presidenza, l’unica vera approvazione ottenuta dal Congresso e’ stata quella di Neil Gorsuch come nono (e decisivo) giudice della Corte Suprema.
Ma e’ una vittoria piu’ che mai di misura: 217 voti contro 213, in una Camera controllata dai Repubblicani con un margine di 40 seggi, significa che non solo un ventina di deputati del proprio partito hanno votato con il “nemico” ma anche e soprattutto che sarebbero bastati altri due “dissidenti” per bocciare la proposta di legge per la terza volta consecutiva – visto che per il regolamento parlamentare della Camera bassa USA il pareggio equivale a una sconfitta della mozione in esame.
Ed e’ anche una vittoria costosa: nel tiramolla tra amministrazione e deputati repubblicani – riluttanti ad accettare una riforma del sistema sanitario considerata allo stesso tempo troppo all’acqua di rose e statalista dalla destra del partito, e troppo estrema e liberista dai membri piu’ moderati e centristi dello stesso – la Casa Bianca ha sicuramente dovuto fare molte concessioni, alcune note al pubblico, e molte altre riservate, pagabili chissa’ quando e in quale occasione.
A questa opera di convincimento Trump ha assegnato il suo vice Mike Pence e il presidente della Camera Paul Ryan, i quali anche se adesso battono il cinque nel giardino delle Rose avranno di certo un bel daffare – viste le repentine inversioni di rotta del loro “capo” – nel mantenere gli impegni con quei parlamentari che hanno votato questa “madre di tutte le promesse elettorali” Trumpiane, col naso tappato.
E un daffare ancora maggiore adesso aspetta lo stesso Pence, nel cercare di “vendere” la riforma Trump al Senato, dove la maggioranza e’ ancora piu’ risicata (52-48) e dove i membri – responsabili di fronte all’intero Stato che rappresentano e non ad un solo collegio elettorale come i deputati – sono per definizione piu’ moderati dei loro colleghi alla Camera e dunque ancora piu’ riluttanti, anche in casa Repubblicana, nel lasciare una strada vecchia (di cui comunque sono in tanti ad essere soddisfatti) per una nuova piena di silenzi legislativi, zone grigie e in ultima analisi incertezze per il futuro.
Si’ perche’ in fondo la nuova legge, se applicata alla lettera – cosa abbastanza improbabile in quanto gia’ si prevede una revisione per renderla “digeribile” al Senato -, nonostante gli allarmismi a tratti apocalittici degli oppositori, non cambiera’ radicalmente il panorama gia’ abbastanza complesso, a tratti farraginoso, della assistenza sanitaria americana.
La paura dei democratici, e in genere dei tanti critici di questa riforma, definita , e non solo da sinistra, come “ideologica” o “fatta per punto preso”, e’ che si ritorni alla situazione pre-Obama, cioe’ una sorta di far west lasciato nelle mani degli assicuratori, con oltre 40 milioni di americani scoperti – spesso perche’ non potevano permettersi le polizze – che in caso di problemi di salute affollavano i reparti di pronto soccorso, ovvero gli unici con l’obbligo legale di aiutare chiunque, a prescindere dal conto in banca.
Obama, aveva praticamente esteso il sistema sperimentato in Massachusetts, firmato dall’allora governatore repubblicano Mitt Romney ma messo a punto dal democratico Ted Kennedy, in cui lo Stato – singolo prima, federale poi – veniva incontro al cittadino che non avesse la copertura garantita dal datore di lavoro e dunque costretto a pagarsela di tasca sua. In cambio gli individui venivano incentivati –in pratica costretti – ad assicurarsi in un modo o nell’altro, pena il pagamento di una tassa aggiuntiva. Dal canto loro le assicurazioni erano tenute a fornire le stesse polizze agli stessi prezzi, a prescindere dalle condizioni di salute dell’assicurato.
Insomma, una riforma di sinistra, anche se all’americana, dove se non proprio la ‘mutua’ per tutti (sognata, proposta, e miseramente fallita, da Hillary Clinton quando era first lady), almeno ci fosse la possibilita’ per piu’ persone possibili di usufruire, di questo sistema privato, aiutato dal pubblico.
Ora la riforma di Trump propone, di stemperare alcuni di questi provvedimenti, scaricando un po’ dell’enorme peso economico dalle spalle della finanza pubblica, eliminando l’obbligo ‘de facto’ di assicurarsi e lasciando agli Stati la possibilita’ di decidere se permettere o meno agli assicuratori di variare i prezzi delle polizze e dunque renderne piu’ costoso l’accesso ai portatori di quelle che qui si chiamano ‘pre-existing conditions” (condizioni pre-esistenti) in pratica ai malati cronici.
Quest’ultimo punto, delicatissimo in verita’, e’ stato al centro della polemica politica sull’argomento, al punto da costringere i redattori della proposta a un emendamento in zona Cesarini, per convincere quella manciata di deputati mancanti, che alloca miliardi di dollari pubblici per tappare la ‘falla” dei malati cronici – stimati attorno ai 27 milioni.
Mentre 24, secondo l’Ufficio Bilancio del Congresso, saranno i milioni che perderanno nel giro di pochi anni la copertura nel caso passasse la nuova legge. Una delle cause e’ il taglio delle tasse aggiuntive, imposte da Obama ad aziende e privati per far fronte alla spesa medica pubblica: balzelli, chiesti ai ricchi per curare i poveri, gia’ insufficienti – al punto che dopo un paio d’anni le quote mensili delle assicurazioni si sono impennate drammaticamente – che nella proposta di Trump vengono eliminati del tutto tanto da far gridare alla super-liberal e intellettuale rivista ‘The New Yorker’: “Trump e’ Robin Hood al contrario, e per giunta alla luce del giorno.”
Dunque per quanto la riforma sia edulcorata e smussata negli angoli piu’ aguzzi, c’e’ di che arricciare il naso. Anche perche’ in molte sue parti parla chiaro su cosa vuole distruggere ma non altrettanto sul modo di ricostruirlo. E’ vaga e imprecisa in molte sue parti, “e di proposito,” accusano i commentatori piu’ smaliziati, in modo da permettere poi ai singoli stati di applicarla come meglio credono. Il problema e’ che secondo le statistiche proprio in quegli stati, del Midwest e del Sud che hanno votato in massa per Trump e per deputati e senatori repubblicani, risiedono il maggior numero di americani con malattie croniche e soprattutto in condizioni economiche tali (quella fascia tra gli indigenti e i benestanti definita “working poor” i poveri che lavorano) da rischiare di rimanere tagliati fuori dal sistema.
Proprio in quegli stati dunque diventa difficile “vendere” una riforma che nonostante i correttivi sa tanto di “ognuno per se, Dio per tutti”; in questo senso i democratici sono gia’ passati al contrattacco con massicce raccolte di fondi e campagne di registrazione al voto, in previsione dell’imminente dibattito nella Camera Alta e soprattutto del voto di Midterm con cui a novembre dell’anno prossimo si rinnova la Camera e due terzi del Senato.
“Questo voto restera’ sulla vostra fronte come un tatuaggio fosforescente” ha gia’ detto senza mezzi termini Nancy Pelosi ex presidente e oggi capogruppo democratico della Camera ai colleghi deputati che hanno permesso a Trump questa prima vera vittoria parlamentare.
Una vittoria dunque non solo risicata e costosa, ma che nonostante la fanfara, i brindisi e i cinque battuti davanti alle telecamere dai tanti parlamentari (quasi tutti maschi e bianchi) invitati dal presidente nel giardino delle Rose, ha serie possibilita’ di trasformarsi, prima di quanto si aspettino alla Casa Bianca, in una classica vittoria di Pirro.