Mentre l’establishment e la stampa si dividono tra interventisti e neutralisti il popolo americano, stanco di guerre costose e controproducenti, perde fiducia nel presidente Obama facendolo scendere nel sondaggi del gradimento per la prima volta sotto il 50%.
Dopo l’annuncio di un intervento americano a favore dei ribelli siriani infuria il dibattito nel mondo politico, nell’opinione pubblica e soprattutto sui media nazionali negli Stati Uniti. Dall’establishment, sia di destra che di sinistra, voci autorevoli, da Bill Clinton a John Mc Cain, incoraggiano il presidente a intervenire – in modo più o meno deciso – in un conflitto che dura da oltre due anni e che adesso stando ai rapporti dell’intelligence sull’uso delle armi chimiche, sembra aver “passato il segno”, la linea rossa di cui aveva parlato Obama superata la quale l’America non sarebbe più stata a guardare.
Finora i sondaggisti erano stati unanimi nel riportare la generale riluttanza degli americani verso un intervento diretto (i favorevoli oscillavano tra il 30 e il 40%, e superavano il 50 solo nell’eventualità appunto di repressione con armi chimiche), adesso però che l’ipotesi diventa realtà, come nota il New York Times, resta da vedere in quanti cambieranno idea.
Non solo: c’è anche la possibilità che molti non credano alle parole del presidente, visto che a seguito di una serie di scandali tra cui quello recente e gravissimo dello spionaggio su telefonate e e-mail di privati cittadini, l’indice di gradimento nazionale per Obama è sceso oggi per la prima volta al di sotto del 50 %. Per ora le analisi più lucide e le riflessioni interessanti le fornisce la stampa, divisa più che mai, vista la complessità della situazione, tra neutralisti e interventisti di vario grado, e prodiga in ogni caso di paragoni con altre guerre recenti.
Tra gli spauracchi principali per un possibile intervento ci sono le similitudini con l’Iraq. “Ma la Siria non è l’Iraq”, scriveva poco più di un mese fa Bill Keller sul New York Times; tanto per cominciare l’interesse nazionale è reale e non fabbricato a tavolino; poi in Iraq l’intervento americano ha scatenato un guerra tra sette mentre in Siria c’è già; inoltre abbiamo l’opzione di non mandare truppe; infine gli alleati ( tra cui Francia e gran Bretagna) stavolta non vanno convinti come nel 2003, ma sono già pronti, anzi stanno solo aspettando la luce verde da Washington per dare una mano.
Ma sono tante anche le voci contro l’intervento – almeno nei termini ventilati da Obama: Fareed Zakaria, opinionista tra gli altri di CNN e Time magazine, sostiene che un intervento timido e limitato rischia solo di peggiorare la situazione umanitaria e di complicare quella politica, considerando anche il fatto che tra le mille milizie sunnite dell’opposizione si annidano forze più ostili agli Stati Uniti, e di sicuro alla tolleranza – compresa quella religiosa – di quanto non sia il regime che stanno cercando di abbattere. E che una presa del potere a Damasco da parte loro potrebbe anche causare una repressione di cristiani e curdi finora rimasti neutrali, per non parlare del rischio di deterioramento dei rapporti con la Russia ( alleato storico di Assad) e dell’ondata di antiamericanismo che si scatenerebbe tra gli sciiti di tutto il Medio Oriente. Zakaria arriva non si capisce bene se ad accusare o a consigliare Obama di mantenere gli aiuti a un minimo in modo da far durare la guerra più a lungo possibile (un po’ come fece Reagan negli anni 80 con Iran e Iraq) per “dissanguare”, dice testualmente Zakaria, i due contendenti e renderli così meno ostici al momento di dover trattare con il vincitore.
Un’altra voce autorevole viene dal New York Times di domenica scorsa, dove Ramzy Mardini, esperto di affari mediorientali in forza al dipartimento di Stato nell’era Bush, definisce l’intervento, una pessima idea. I motivi citati da Mardini vanno dal vuoto di potere che si rischia di creare in una zona caldissima del mondo, al fatto che non è poi cosi scontato che la maggioranza dei siriani voglia davvero vedere i ribelli al potere. Il rischio, conclude, è quello di cadere nel solito doppio errore che normalmente commette l’America quando interviene in zone critiche del mondo: una miopia nel prevedere le conseguenze a lungo termine accoppiata a una comprensione tutt’altro che chiaro del contesto sociale e politico in cui avviene il tutto.
In Siria ci sono ancora molte cose non chiare sia per l’amministrazione sia per il popolo americano: a cominciare dalla presenza di armi di distruzione di massa. Non è chiaro il numero delle vittime del conflitto: le stime vanno dai 70.000 ai 100.000 morti. E in fondo anche dopo l’annunciata fornitura di armi e munizioni ai ribelli non è chiara né l’identità politica dei ribelli stessi né lo scopo finale della fornitura.
Quello che è chiaro, almeno dai sondaggi, è che gli americani dopo dieci anni di Afghanistan e Iraq non hanno voglia di un’altra guerra, di altre voci di spesa pubblica che non siano destinate al rilancio interno dell’economia, e soprattutto del rischio di un altro pantano in cui mandare a morire i propri figli (è vero che nessuno ha parlato di intervento militare diretto, ma anche il Vietnam era cominciato così). A maggior ragione poi se a portarli in guerra è un presidente di cui non si fidano più.