Il presidente americano ha varato un piano che prevede tagli nella pubblica amministrazione per 85 miliardi di dollari. Si prevedono 750 mila disoccupati.
Un vecchio detto popolare italiano recita: “Tutto arriva a chi sa attendere”. Il Congresso americano più che sapere ha voluto attendere: in questo caso, l’entrata in vigore del cosiddetto “sequester” un taglio profondo e lineare al bilancio federale che per l’anno 2013 ridurrà di 85 miliardi di dollari la spesa pubblica (circa il dieci percento del budget) causando, oltre che a ritardi disagi e inefficienze in tutti settori gestiti dallo stato, una perdita complessiva, secondo le stime ufficiali di 750,000 posti di lavoro. “Non è l’apocalisse,” ha detto il presidente Barack Obama prima di firmare il decreto-cesoia venerdì scorso, “ma e un provvedimento stupido che farà male a tutti.” Stupido o no, comunque l’aveva firmato anche lui. Esattamente nell’agosto 2011 quando si decise di alzare il tetto del debito e rimandare fino a dopo le elezioni il momento dei tagli (1,200 miliardi in dieci anni) su cui democratici e repubblicani non riuscivano ad accordarsi. Per dare una struttura a questa necessaria riduzione della spesa pubblica e dunque del deficit, che avesse un minimo di senso da un punto di vista economico – ma soprattutto che fosse condivisa da entrambi i partiti – fu istituita una super commissione ad hoc. Paradossalmente l’unica cosa su cui il partito del presidente (i Democratici) in maggioranza al Senato e i gli oppositori (i Repubblicani) in maggioranza alla Camera erano veramente d’accordo, fu proprio introdurre a mo’ di spauracchio il “sequester”, ovvero un taglio talmente sgradito e dannoso per tutti da “costringere” i partiti a una qualche forma d’accordo migliore.
Invece, dopo un anno e mezzo che ha visto il fallimento della super commissione bipartisan, una serie di negoziati su bilancio, debito e deficit inevitabilmente avvelenatada una campagna elettoraleideologica come non mai, e un elezione nel novembre 2012 che oltre al presidente, ha lasciato invariate le maggioranze parlamentari, il sequester è finalmente entrato in vigore. Tutto arriva … a chi lo lascia arrivare! Si’ perché’ stavoltai due partiti non hanno neanche “fatto la mossa”, come si suol dire, di tentare una soluzione in extremis, come fecero lo scorso capodanno per il cosiddetto fiscal cliff, quando mantenendo i tagli alle tasse di Bush, a parte l’aliquota aumentata ai più ricchi, si rimandò praticamente di due mesi la questione dei tagli in bilancio. Di fatto giovedì sera, a ventiquattr’ore dall’ultimatum, quasi tutti i deputati e i senatori avevano già lasciato Washington alla volta dei loro distretti d’origine per il “recess” (il weekend lungo previsto dal calendario parlamentare). Sfacciatamente proforma, l’incontro tra Obama e il presidente della Camera, il repubblicano John Bohener, venerdì mattina. La sensazione, secondo gran parte degli analisti,è che gli uni e gli altri abbiano, non senza malafede, lasciato succedere il tutto, così da poter accusaregli avversaridel disastro,una volta che le conseguenze si faranno tangibili.
Per ora, secondo i sondaggi, solo un americano su quattro sta seguendo con attenzione le notizie dai palazzi di Washington: molti non le capiscono, molti altri sono disgustati da un parlamento in stallo continuo, altri ancoradistrattidai tanti problemi che la crisi ha portato loro in casa, e un buon numero non pensa che la scure gli cadrà troppo vicino. Al contrario i tagli firmati tre giorni fa colpiranno gradualmente – e inesorabilmente – tutti i settori dell’impiego pubblico: a cominciare dal personale civile del dipartimento della difesa, via via, passando alla sicurezza negli aeroporti fino agli ispettori antisofisticazioni per finire, con l’inizio del nuovo anno scolastico, agli insegnati e al personale non docente. Già sono partite le prime lettere di riduzione dell’orario per molti dipendenti di enti e ministeri e dalla settimana prossima cominceranno ad arrivare assegni più leggeri di sussidio ai disoccupati. Così,piùmonterà il malcontento,più Repubblicani e Democratici se la prenderanno rispettivamente con l’intransigenza degli avversari. Martina Stewart della CNN descrive i due partiti come due coniugi in crisi che, in terapia, continuanoad accusarsi a vicendadi aver causato il litigio, e a cercare di vincerlo, perdendone di vista i motivi reali che ne stano alla base.
E i motivi di fondo sono in parte riconducibili a una differenza, in un certo senso, filosofica sul ruolo (sia qualitativo che quantitativo) del governo e dello Stato nella vita dei cittadini- differenza esacerbata dai toni fortemente ideologici di una lungacampagna elettoraleda cui partiti e opinione pubblica non si sono ancora del tutto disintossicati. Dunque se gli uni e gli altri convengono sulla qualità dei tagli (così lineari che Paul Krugman prestigioso editorialista del New York Times li definisce “un monumento al potere delle pessime idee”) Obama e i suoi li vorrebbero anche molto più leggeri, compensandoli, ad esempio con la chiusura una serie di scappatoie legali che tutt’oggi consentono a manager e amministratori delegati di pagare – in percentuale s’intende – meno tasse delle loro segretarie. E’ la filosofia democratica: più tasse, uguale Stato più in grado di spendere e dunque rilanciare una crescita che tarda a tornare.
In casa Reubblicana invece, dove l’aumento dell’aliquota di capodanno (più uno percento a chi guadagna più di 400,000 dollari)già sembra una concessione fiscale eccessiva, si ripete il mantra liberista: “Washington è spendacciona, e non ce lo possiamo permettere più”.E’ la filosofia Repubblicana: meno soldi allo stato, ugualepiù chance, per i privati, di creare lavoro. Certo i tagli alla difesa e alla sicurezza nazionale non piacciono nemmeno a destra, ma per Bohener e compagni sempre meglio delle tasse sono. E intanto i tagli sono arrivati, per ora sulla scrivania di Obama e presto, se nel frattempo lo stallo con gli indici puntati continuerà, arriveranno anche nelle case e nei conti in banca degli americani. “Usare i cittadini come pedine sofferenti per dimostrare di avere ragione è un modo terribile di governare,” sentenzia l’onnipresente commentatore televisivo David Gergen, fine analista preso a prestito della Kennedy School of Government, la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Harvard. E conclude impietoso: “non siamo mai stati così orfani di leadership.”
Cittadini disgustati, contrapposizione ideologica, stallo parlamentare, tagli lineari che soffocano la crescita, leadership che non c’è … suona tutto tristemente familiare. Ma almeno qui, in America, un esecutivo ce l’hanno e (a meno di improbabili scappatelle presidenziali) resterà in carica per i quattro anni stabiliti di legislatura. E non c’ènemmeno un terzo partito che controlla un sesto del parlamento e che, per principio, non fa accordi con nessuno.