A tu per tu con il giornalista “a stelle e strisce” Stefano Salimbeni
Di Daniele Gattucci
Stefano Salimbeni, una vita al servizio della comunità italo-americana. Giornalista di Fabriano che in Rai ha raccontato l’Italia negli USA e di recente premiato con il Cavalierato della Repubblica dalla Console di Boston, Federica Sereni.
Stefano, a chi deve questa onoreficienza? In particolare chi ha fatto la proposta che ha portato al cavalierato? “È stata un’iniziativa del precedente Console italiano a Boston, Nicola De Santis, sostenuta anche dalla Console attuale, Federica Sereni, che mi ha fatto l’onore di ospitare la cerimonia a casa sua – cosa che non era tenuta a fare – con 40 invitati miei. Il titolo non lo danno a tutti i giornalisti, le cerimonie di solito le fanno al consolato, e, soprattutto, lo danno a fine carriera, non a 50 anni come nel caso mio”.
La motivazione per il conferimento del titolo? “In sintesi: per come ho raccontato gli italiani d’America agli altri italiani nel mondo. Facendolo con cognizione, ma anche con grande interesse nello scoprire la comunità – anzi le comunità – perché ho girato l’America in lungo e in largo, anche pagandomi da solo le trasferte in alcuni casi. I mille servizi che ho confezionato rappresentano l’archivio più ricco di tutti i tempi sugli italiani d’America… Dunque questa onorificenza la devo all’Italia e all’America, per il mio lavoro, sia quello pagato (non tantissimo), che per le attività fatte nel tempo libero – tanto per fare un esempio cantare le canzoni italiane durante le feste vestito, appunto, da Babbo Natale”.
Uno sguardo al recente passato per sottolineare che Stefano Salimbeni, nel 1996 dopo la laurea in Scienze Politiche all’Universita’ di Bologna, è riuscito a conseguire il master in giornalismo negli Stati Uniti alla Boston University. Da allora non ha mai lasciato la capitale del Massachusetts se non per brevi periodi di tempo: il più lungo otto mesi per lavorare come redattore all’ “Italy Daily”, supplemento italiano dell’International Herald Tribune (Oggi International New York Times) pubblicato dalla Rizzoli di Milano in collaborazione con il Corriere della Sera.
“Da Boston, campo base e punto di partenza di periodiche peregrinazioni USA (sono sue parole), ho raccontato per 23 anni l’America agli italiani, in Italia e soprattutto nel mondo collaborando come reporter, e all’occorrenza come producer, con la RAI, Radio Televisione Italiana. In particolare dal 2000 ho prodotto servizi a tema italiano o italoamericano di lunghezza variabile (dai 2 ai 30 minuti a seconda del programma) per RAI International – o RAI Italia che dir si voglia. Nel frattempo ho anche prestato la mia opera a varie produzioni RAI, dal “Superzap America” (1999), una sorta di video-rassegna stampa quotidiana delle notizie trattate dai telegiornali USA trasmessa dalla neonata RAINews24, alla copertura per i TG nazionali, in veste di producer, dei grandi eventi come le elezioni presidenziali (2004 e 2008), lo scoppio della guerra in Iraq (2003) e la tragedia dell’11 settembre (2001)”.
Ovviamente, a questo “fiume in piena” che non si riesce ad arginare nel suo fluente e coinvolgente eloquio , non è nemmeno mancata la carta stampata: ”Anche se ormai gran parte del giornalismo scritto succede su internet, a me piace ancora chiamarla così.” Specifica Stefano. “Nel poco tempo lasciatomi a disposizione dalla TV, mezzo con cui fu amore, travolgente, a prima vista, ho cercato di mantenere vivi contatti e collaborazioni con le varie testate con cui collaborai ad inizio carriera. Primo tra tutti il “Post Gazette”, storico settimanale italoamericano di Boston in lingua inglese, “America Oggi” il quotidiano in lingua italiana stampato in New Jersey, e non da ultimo “L’Azione” settimanale locale della mia città Fabriano, e del suo circondario dove in età non sospetta ho messo le mie prime inebrianti ‘firme’ e al quale non dimentico di mandare – anche se non spesso quanto vorrei – reportage americani in “prima persona”.
Ma, come detto, non finisce qui: “Dal 2011 a oggi ho condotto una prolifica collaborazione con Famiglia Cristiana, settimanale nazionale di grande prestigio e tiratura, sul cui sito web e sulle cui pagine, di rivista “non pettegola” piu’ letta d’Italia, figuravano con cadenza settimanale le “riflessioni americane” del sottoscritto. E piu’ o meno nello stesso periodo cominciai a collaborare con la rivista il Bostoniano, costola locale dello storico mensile Italoamericano ‘Tra Noi’, diretto dal collega e amico Nicola Orichuia, per il quale ho raccolto ogni mese un personaggio italiano degno di rilevo”.
Una data di quando inizasti a pensare di fare il giornalista? “Non ricordo date esatte di quando questo mio sogno iniziò a diventare realtà. L’unica cosa che rammento come fosse ieri è quello che Vittorio Zucconi chiamava “il brivido della prima firma”, per il semplice motivo che continuo a provarlo ancora, identico, ogni volta che ne metto una, in televisione, su carta o sul web”.
Quindi Giornalista per vocazione? “Da sempre ho voluto farlo di professione e da tanti anni lo faccio davvero. E’sempre stata una passione naturale. Ho fatto tutto da solo. Non devo ringraziare nessuno. Ho preso il premio per la carriera e per quello che ho fatto a latere. Gli unici che devo ringraziare sono i miei genitori, Ezio e Sisa, che non mi hanno mai imposto di mollare e di “trovarmi un lavoro serio”. Al contrario, mi hanno sostenuto e incoraggiato anche quando si è trattato di venire negli Stati Uniti per un master di giornalismo. Per me è stata la strada più logica per entrare nel giornalismo nonostante la mia provenienza dalla provincia. Nel giornalismo italiano lavorare è difficile se non vieni cooptato e io ho sempre odiato questa brutta abitudine italiana. In Italia vige il nepotismo, ieri come oggi. Anche in USA puoi venire raccomandato, ma solo perché qualcuno che ti ha visto lavorare si espone di sua volontà e dice ‘questo è bravo’. Negli USA nessuno si vanta di avere amici potenti; in Italia, invece, se hai lo zio cardinale lo dici al bar; e tutti: ‘Bravo!”
Qual’è stato il servizio più bello fatto sugli italo-americani?
“Non chiedermi di scegliere. A me piacciono tutti, sono tutti figli miei. Li ho curati uno per uno. Se devo fare mente locale, forse il più bello è quello fatto a New Orleans nel 2009 sulle origini Italiane del Jazz, scoprendo che il primo musicista che registrò un disco jazz si chiamava Nick la Rocca – siciliano – e io sono stato a casa sua a intervistare il figlio (ormai ottantenne) più una serie di altri personaggi di contorno. A qualcuno deve essere piaciuto, perché dopo qualche anno Renzo Arbore ha firmato uno speciale u-gua-le, più lungo ma con le stesse interviste andato in onda sulle reti RAI nazionali”.
Qual’è stato il servizio più difficile?
“Fammene nominare due. Difficili, ma anche interessanti. Quello fatto per reagire allo scempio fatto alle statue di Cristoforo Colombo in tutta l’America sull’onda emotiva del Black Lives Matter; un evento che ha “unito” gli italiani “antichi” con quelli di più recente immigrazione – anche se non tutti – e ché mi ha dato modo di affrontare un argomento dalle ramificazioni molto più profonde della sola distruzione delle statue. L’altro è stato un pezzo di vero e proprio giornalismo investigativo di molti anni fa. Purtroppo non ho neanche il video su YouTube per quanto è vecchio. Nel servizio dimostravo l’innocenza di due italiani accusati per anni di un omidicio di mafia. Ho fatto interviste esclusive con i diretti interessati e sono arrivato a sfatare il mito dell’italiano considerato a “priori” un mafioso solo per il fatto di essere italiano”.
Le persone importanti intervistate?
“Forse l’intervista a Mogol, il famoso paroliere che si commosse quando i bambini di una scuola di Boston gli cantarono una sua canzone! E quella a Padre Scaravelli che, italiano di nascita, accoglie i brasiliani emigrati in un centro che fu costruito dagli italiani per accogliere ai tempi gli immigrati italiani”.
A questo punto il mio interlocutore ferma la sua forza narrativa e dice: “Attenzione da un anno a questa parte non faccio più il giornalista ma sono ancora nel novero, occupando un incarico manageriale, uno di quelli che presenta l’Italia in uno dei sui punti di forza. Sei mesi fa – tiene a rimarcare – uno dei tanti contatti avuti con il mondo del giornalismo, tanto per non fare nomi Michael Colomba, mi ha coinvolto nella gestione di una neonata catena di cibo italiano. E’ un lavoro bellissimo e davvero gratificante al punto che se dovesse andare secondo i piani previsti il consolato italiano mi farà salire di un altro gradino nelle onoreficienze di stato, dice sorridendo, da Cavaliere a Ufficiale”.
Gratificante, bellissimo, certo, ma non manca il lavoro ed il mestiere del giornalismo?
Salimbeni, pensoso e con la sintesi del caso, risponde “Non e’ detta l’ultima parola – e aggiunge – il rapporto con il nostro Bel Paese è e resta garantito”. `Di rimando chiedo: il rapporto con Fabriano? Non collaboro con la mia città soltanto con gli articoli su L’Azione, ma da 26 anni ci torno almeno tre volte l’anno. Da Boston impiego tre ore ad andare ai Caraibi ma ci sono stato soltanto una volta, poiché se nuotando dietro i meravigliosi pesci della barriera corallina penso a cosa starà facendo Giorgio Stroppa o Mario Salari a quel punto meglio salire sull’aereo e andare a vedere di persona. Di sicuro so di trovarli impegnati nel comporre l’ultima canzone dei Motozappa, dunque, tanto vale esserci – anche perchè proprio i Motozappa sono stati uno dei motivi principali per i miei frequenti ritorni in patria. A proposito, “cari concittadini” – conclude Stefano – il prossimo 2 ottobre in piazza del Mercato dopo tre anni di pandemia, il celebre gruppo demenziale Fabrianese sara di nuovo sul palco, e con il sottoscritto presente”
Per cui dopo un piccolo saluto al “Cavaliere”, tutti in pista, che si balla di nuovo!