Cavaliere Stefano Salimbeni, una vita al servizio della comunità italo-americana – La Voce di New York

Intervista al giornalista di Fabriano che con la Rai ha raccontato l’Italia negli USA e che è stato premiato con il Cavalierato della Repubblica.

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Di Luca Passani

Il conferimento del titolo di Cavaliere della Repubblica è l’occasione perfetta per intervistare Stefano Salimbeni e per presentarlo agli italiani d’America che ancora non lo conoscessero… e chiedergli cosa farà nei suoi prossimi cinquant’anni.

“Questa onorificenza io la devo all’Italia e all’America. Per il mio lavoro, sia quello pagato (non tantissimo) che per le attività fatte nel “tempo libero”!  Ringrazio molto chi mi ha, tra virgolette, “salvato dal giornalismo”, perché per me il giornalismo era una droga, sono stato in overdose per anni e anni…”

Fermati! Qui dobbiamo fare un’intervista e così non ci capisce niente nessuno.

L’ho dovuto stoppare. Stefano è un fiume in piena. Ho conosciuto Stefano Salimbeni nel 2018 quando veniva a Washington per uno dei mille servizi che ha confezionato nella sua carriera di corrispondente Rai da Boston, e siamo diventati amici. Quante storie ha da raccontare. Adesso che ha ricevuto l’ambita onorificenza di Cavaliere della Repubblica, l’onore di intervistarlo per VNY tocca a me. Parliamo su Zoom. Lui è a casa sua a Boston.

Riparto io con le domande:

Chi è Stefano Salimbeni? Come hai scelto di diventare giornalista?

“E’ sempre stata una passione naturale. Ho fatto tutto da solo. Non devo ringraziare nessuno. Ho preso il premio per la carriera e per quello che ho fatto a latere. Gli unici che devo ringraziare sono i miei genitori, Ezio e Sisa, che non mi hanno mai imposto di mollare e di “trovarmi un lavoro serio”. Al contrario, mi hanno sostenuto e incoraggiato anche quando si è trattato di venire negli Stati Uniti per un master di giornalismo. Per me è stata la strada più logica per entrare nel giornalismo nonostante la mia provenienza dalla provincia. Nel giornalismo italiano lavorare è difficile se non vieni cooptato e io ho sempre odiato questa brutta abitudine italiana. In Italia vige il nepotismo, ieri come oggi. Anche in USA puoi venire raccomandato, ma solo perché qualcuno che ti ha visto lavorare si espone di sua volontà e dice ‘questo è bravo’. Qui [in USA, NdR] nessuno si vanta di avere amici potenti, in Italia se hai lo zio cardinale lo dici al bar, e tutti ‘Bravo!’ [mima l’applauso con le mani]”

Se poi c’hai il babbo cardinale… standing ovation – lo interrompo.

[Ride ancora]. “In America, se ce l’hai non lo dici al bar, te lo tieni per te. Venire qui era il modo più semplice per me per by-passare quel sistema…”

Qual’è stato il servizio più bello che hai fatto sugli italo-americani?

“Non chiedermi di scegliere. A me piacciono tutti, sono tutti figli miei. Li ho curati uno per uno. Se devo fare mente locale, forse il più bello è quello fatto a New Orleans nel 2009 sulle origini Italiane del Jazz, scoprendo che il primo jazzista che registrò un disco jazz si chiamava Nick la Rocca – siciliano – e io sono stato a casa sua a intervistare il figlio (ormai ottantenne) più una serie di altri personaggi a contorno. A qualcuno deve essere piaciuto, perché dopo qualche anno Renzo Arbore ha firmato uno speciale u-gua-le, più lungo ma con le stesse interviste andato in onda sulle reti RAI nazionali”.

Infatti ricordo di averlo visto anch’io quello di Arbore perché andato spesso in replica. Non so chi ha detto che scopiazzare è la forma più sincera di adulazione…  parlami invece delle persone importanti che hai intervistato.

“Forse l’intervista a Mogol, il famoso paroliere che si commosse quando i bambini di una scuola di Boston gli cantarono una sua canzone! E quella a Padre Scaravelli che, italiano di nascita, accoglie i brasiliani emigrati in un centro che fu costruito dagli italiani per accogliere gli immigrati italiani in quel paese”.

Parlami di qual’è stato il servizio più difficile invece.

“Fammene nominare due. Difficili, ma anche interessanti. Quello fatto per reagire allo scempio fatto alle statue di Cristoforo Colombo in tutta l’america sull’onda emotiva del Black Lives Matter, una serie di eventi che ha “unito” gli italiani “antichi” con quelli di più recente immigrazione – anche se non tutti –  perché mi ha dato modo di affrontare un argomento dalle ramificazioni più profonde che la sola distruzione delle statue. L’altro è stato un pezzo di vero e proprio giornalismo investigativo di molti anni fa. Purtroppo non ho neanche il video su YouTube per quanto è vecchio. Nel servizio dimostravo l’innocenza di due italiani accusati per anni di un omidicio di mafia. Ho fatto interviste esclusive con i diretti interessati e sono arrivato a sfatare il mito dell’italiano considerato a “priori” un mafioso solo per il fatto di essere italiano”.

Chi ha fatto partire la proposta che ha portato al cavalierato?

“È stata un’iniziativa del precedente Console italiano a Boston, Nicola De Santis, sostenuta anche dalla Console attuale, Federica Sereni, che mi ha fatto l’onore di ospitare la cerimonia a casa sua, cosa che non era tenuta a fare, con 40 invitati miei. Il titolo non lo danno a tutti i giornalisti, le cerimonie di solito le fanno al consolato, e soprattutto lo danno a fine carriera, non a 50 anni come nel caso mio”.

Ma qual’è stata la motivazione per il conferimento del titolo?

“In sintesi: per come ho raccontato gli italiani d’America agli altri italiani nel mondo. Facendolo con cognizione, ma anche con grande interesse mio nello scoprire la comunità, anzi le comunità perché ho girato l’America in lungo e in largo, anche pagandomi da solo le trasferte in alcuni casi. I mille servizi che ho confezionato rappresentano l’archivio più ricco di tutti i tempi sugli italiani d’America…”

Questo mi porta alla domanda cardine. Perché Stefano Salimbeni, in questo momento, non è giornalista della Rai?

“Ma non parliamo di questo…”

No, insisto. Dimmi solo perché non sei più giornalista Rai…

“No, non sono più giornalista. Punto. La Rai – senza volerlo – mi ha fatto un favore. Dopo 23 anni di servizio, hanno deciso di tagliare i rapporti da un giorno all’altro senza neanche premurarsi di fornire una motivazione. Hanno fatto il ghosting [NdR: rifiutare categoricamente di rispondere a qualsivoglia tentativo di contattarli]. Ho provato a capire cosa stesse succedendo attraverso tutti i canali possibili, ma non ne è uscito niente di serio. Ho lavorato con sette direttori Rai. Non avendo mai avuto affiliazione politica, ho sempre pensato che questo mi mettesse al riparo da cambiamenti ai vertici. La mia attenzione al lavoro è sempre stata ma-nia-ca-le. Dal mio computer non esce niente di cui non sia io per primo super-contento. Ho imparato anche a montare direttamente da solo i servizi in modo che non ci sia nessuno tra me e il mio prodotto. L’unico di cui ho bisogno è il cameraman.”

Ok, ho capito. Quindi, nei tuoi primi cinquant’anni sei stato un giornalista solido (Stefano ride e prova a schernirsi, dice che ha solo provato a fare del suo meglio) ma ora scopro, mi stai dicendo, che in futuro non sarai più giornalista? Cosa farà nei secondi cinquant’anni Stefano Salimbeni?

“Nei miei primi cinquant’anni sono stato giornalista e mi sono legato alla comunità italiana qui ancora di più di quanto il mio ruolo mi richiedesse, mettendoci anche il mio tempo libero e questo qualcuno me lo ha riconosciuto e questo mi è valso il titolo di Cavaliere. Detto questo…

La Rai, suo malgrado, mi ha fatto un favore enorme. Non mi ha dato scelta. Io sono giornalista nell’anima. Se mi avessero offerto un altro contrattino, anche uno di quelli striminziti, io a quello mi sarei adattato pur di seguire la mia passione. Ma non dandomi scelta, mi hanno costretto a mettere in moto il mio network, che non è piccolo dopo così tanti anni.”

E cosa farai ora?

“Sono caduto in piedi. Sto lavorando per Michael Colomba, un imprenditore italo-americano di successo con cui ho un rapporto di amicizia e di fiducia totale. Quando ha saputo che cercavo nuove sfide, Michael mi ha detto ‘io ho bisogno di uno come te per lanciare il Fast Food italiano qui in America’. L’idea mi è subito piaciuta. Il fast food italiano fatto bene non c’è mai stato. Michael – anzi, Michele, che è il suo vero nome – fa 70000 arancini al mese e li vende alla grande distribuzione. Io non ci capisco molto di cibo – a parte mangiarmelo [ridiamo insieme] – ma porto in dote il mio network costruito negli anni e le cose che devo imparare sull’industria me le sta insegnando lui. Tra l’altro qui si parla di soldi seri, altro che quelle due lire che facevo da giornalista”.

Ok, allora per chiudere il discorso giornalismo. Qual’è la sintesi di tutti questi anni passati con le comunità italiane in America?

“Senza tanti discorsi retorici, faccio un appello. C’è un divario tra le vecchie generazioni di immigrati italiani di prima e gli expat di oggi, che vengono qui a fare i ricercatori, i dottori, gli scienziati. Anche le vecchie generazioni venivano qui a inseguire un sogno, ma era il sogno di dar da mangiare ai figli.”

Arrivavano con le pezze nei pantaloni…

“Ecco, non lo volevo dire io, ma – attenzione! – poi le pezze se le sono tolte con gli interessi. Dopo tre o quattro generazioni gli italiani hanno fatto il miracolo. Tolto qualche mafioso, qualche stronzo, quello c’è sempre, gli italiani sono gente “giusta”, che lavora, affidabile. Nel giro di poche generazioni si sono affrancati. Le nuove generazioni di immigrati questa cosa dovrebbero tenerla a mente e non snobbare le feste dei santi e le manifestazioni degli italo-americani che erano qui prima di loro. Le altre comunità trovano forza nella loro capacità di fare sistema, mentre noi litighiamo pubblicamente. Non c’è cooperazione e neanche comunicazione tra le due comunità che si snobbano anche se cantano lo stesso inno. Occorre che qualcuno costruisca dei ponti…”

Tu sei al 100% italiano, ma sei anche cittadino americano, quindi bisogna rifare i conti. Quanto sei italiano e quanto sei americano?

[di colpo Stefano ha l’espressione pensosa] “Bella. Bella domanda…”

E mò so’ cavoli tuoi…

“Casa è sempre l’Italia. Vedi questa mappa [indica la cartina dell’Italia dietro di lui], e poi questa [indica la mappa USA, appesa dietro anch’essa]. Ci sono pallini rossi, con tutti i posti dove ho vissuto, ma c’è solo un pallino trasparente. Quella è Fabriano. Ci vado due o tre volte l’anno. Ho mantenuto il rapporto con l’Italia, gli amici e i parenti. Ma mi sono anche integrato qui a Boston. Gli italiani di Boston mi conoscono tutti e anche molti italiani nel resto degli USA.”

Va bene così, anche se Stefano non ha fornito una percentuale esatta di italianità. Non insisto. in fondo sono stato un po’ perfido. La mia è una domanda tosta per tutti gli italo-americani. Ne so qualcosa anch’io.

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