Pubblicato il 9 Febbraio, 2017 come “COVER STORY” sull’edizione n. 7 della rivista
CLICCA SULLE IMMAGINI DELLE PAGINE PER LEGGERLO SULLA RIVISTA
BOSTON – In condizioni normali Superbowl Sunday, la domenica in cui si disputa la finale del campionato di football e’ praticamente una festa nazionale. Per un giorno l’America si ferma in attesa del “big game”, e le uniche divisioni sono tra chi guardera’ la partita e chi no; e, nel primo caso, tra i sostenitori di una squadra o dell’altra. E a prescindere da quale di questi gruppi si faccia parte, normalmente, non si riesce a parlare d’altro.
Ma queste non sono condizioni normali: dopo due sole settimane di presidenza, Donald Trump, tra nomine di collaboratori e giudici non proprio gradite a tutti, dichiarazioni e tweet al veleno, e ben 18 decreti uno piu’ controverso dell’altro culminati con l’ordine di sospendere i visti d’entrata da 7 nazioni a maggioranza musulmana, e’ riuscito a polarizzare la nazione come ai tempi di Nixon e del Vietnam, riempire di manifestanti le piazze e gli aeroporti per tre weekend consecutivi e a scatenare un braccio di ferro istituzionale senza precedenti tra poteri esecutivo e giudiziario. Al punto che, paradossalmente, in una Superbowl Sunday e’ di football che non si riesce a parlare.
Si’ perche’ invece di dividersi, per un giorno, tra i “Falchi” di Atlanta e i “Patrioti” di Boston (le due squadre finaliste) L’America si scopre spaccata, e chissa’ per quanto tempo, su ben altri temi, primo tra tutti l’immigrazione.
I “Falchi”, in questo caso. sono il presidente Trump e la sua squadra di consiglieri scelta arbitrariamente (come comunque gli consente la Costituzione) i quali da piu’ di una settimana difendono a spada tratta la decisione che qui ormai tutti – compreso lo stesso Trump, in un tweet – chiamano “muslim ban” (la messa al bando degli islamici), dicitura tuttavia smentita dai comunicati ufficiali.
Le colombe invece sono Sally Yates, ex ministro della giustizia – ad interim, in attesa che il Senato confermasse quello scelto da Trump – rifiutatasi di eseguire il blocco dei visti e per questo prontamente licenziata; i 160 diplomatici del Dipartimento di Stato, oppostisi pubblicamente alla misura sigilla-frontiere, e da ultimo un giudice federale di Seattle che venerdi’ scorso ha addirittura bloccato il provvedimento, applicando uno dei tanti contrappesi costituzionali allo strapotere del Presidente. Cosi’, non potendolo licenziare per legge, Trump si e’ limitato ad insultarlo in un tweet, chiamandolo “cosiddetto giudice” e definendo la sua opinione “ridicola”. Tutto cio’ prima di aizzargli contro Dana Boente, il vice ministro – sempre ad interim ma notoriamente pro Trump – che, subentrato alla Yates, minaccia di sovvertire la sentenza per motivi di presunta “sicurezza nazionale”.
E “Patrioti”, beh, ci si sentono un po’ tutti gli americani, costretti loro malgrado a un corso accelerato di diritto costituzionale (un po’ come succede con la geologia in caso di terremoto, o la medicina in caso di malattia): sia i tantissimi detrattori, sia gli altrettanto numerosi sostenitori del neoinquilino della Casa Bianca.
Eppure nello scontro frontale, tra squadre comunque corazzate come i moderni gladiatori della palla ovale, diventa sempre piu’ difficile restare neutrali, o quanto meno equidistanti, magari preoccupandosi di quei poveracci senza casco pettorine e ginocchiere che ci si trovano in mezzo – gli oltre 11 milioni tra rifugiati e immigrati illegali su suolo americano piu’ tutti coloro in attesa di entrarci.
Ci provano, per quanto possa servire, i massimi esponenti del mondo cattolico USA: prima la dichiarazione congiunta del Cardinale Daniel DiNardo e dell’Arcivescovo Jose’ Gomez, rispettivamente presidente e vice presidente della conferenza episcopale, che in settimana aveva ricordato: “l’accoglienza non e’ un opzione ma e’ la sostanza stessa della Cristianita’: i nostri fratelli sofferenti e respinti SONO Gesu’ e la Chiesa non si voltera’ dall’altra parte” aggiungendo “le azioni del nostro governo devono ricordare ai cittadini i principi basilari di umanita’”; poi la lettera che domenica scorsa il Cardinale Sean O’ Malley, (reduce da un incontro con i leader delle comunita’ musulmane della citta’) ha raccomandato a tutti i celebranti nell’arcidiocesi della cattolicissima Boston di “leggere nelle messe ‘etniche’ e almeno citare in quelle in inglese” . Nel messaggio, in realta’ indirizzato a tutti i fedeli d’America, si auspica una “riforma onnicomprensiva delle leggi sull’immigrazione – a cui la Chiesa intende collaborare, insieme a tutti i politici di buona volonta’ di entrambi i partiti – che rifletta gli ideali di una nazione nata e arricchitasi umanamente – e non solo – grazie ai migranti da tutto il mondo.”
Anche Bergoglio ha fatto sentire la sua voce, in un messaggio registrato in spagnolo e sottotitolato in inglese, il primo di un Papa per la finale di football americano, Francesco ha auspicato che il Superbowl di quest’anno potesse essere “un segno di pace amicizia e solidarieta’ per il mondo”.
Ma i toni concilianti, di questi tempi, faticano a passare dal pulpito al sagrato. “I fedeli qui sono divisi su Trump, come d’altronde lo sono tutti, dappertutto,” osserva a fine messa Padre Antonio Nardoianni, parroco dello storico quartiere italiano del North End, oggi abitato da italoamericani e giovani professionisti e meta di turisti da tutti gli Stati Uniti. “Alcuni vedono il nuovo presidente come il diavolo, e altri – paradossalmente anche molti immigrati – lo considerano un angelo salvatore della patria. Senza mezze misure.”
Certo in una domenica cosi’, col suono delle campane che qui, come altrove negli USA, si fonde coi cori delle manifestazioni, diventa difficile parlare di football anche quando in finale c’e’ la squadra di casa … nel caso di Boston poi – citta’ piu’ a sinistra d’America – ci si sono messi anche l’allenatore e il quarterback dei locali Patriots, dichiarando pubblicamente il loro sostegno a Donald Trump. Roba da mandare di traverso hot dog e patatine!