Stavolta e’ personale, cari concittadini!
Tanto personale che, nonostante sia passato un bel po’ di tempo dal voto con cui il Regno Unito ha votato per uscire – de iure e de facto – dall’Unione Europea, riesco, a fatica, a scriverne solo adesso.
Il ritardo, causato dal fatto, ben noto a tutti i colleghi scrittori, che i dispiaceri altrui sono molto piu’ semplici da raccontare dei propri, mi permette di risparmiarvi l’analisi – dietrologica – delle cause e quella – futurologica – dei possibili scenari geopolitici aperti da questa tanto drastica quanto inaspettata decisione dei sudditi di sua maesta’ britannica.
In tanti, molto piu’ esperti e qualificati di me – e non meno sorpresi dal risultato del referendum d’oltremanica – si sono gia’ espressi sciorinando riflessioni post-mortem sulle tendenze centrifughe generate, nel mondo occidentale, dal capitalismo estremo e globalizzato in classi medie un tempo sicure e benestanti e oggi facile preda di populisti e demagoghi assortiti che, anche se in salse diverse adattate ai rispettivi Paesi, predicano tutti un generico, reazionario, e soprattutto pericoloso “si stava meglio quando si stava peggio”.
E visto che del senno di poi, oltre che le fosse, son pieni anche gli editoriali, dopo aver dato per scontata, fino agli exit poll della sera prima, la consultazione elettorale del Regno Unito, gli “esperti” hanno fatto a gara nell’evidenziare i parallelismi con Donald Trump in America, Marie Le Pen in Francia, Matteo Salvini in Italia. In America li chiamano “Monday morning quarterbacks”, gli allenatori del lunedi’ mattina, di cui ahime’ i nostri bar sono pieni e non solo quando si parla di calcio!
E in realta’, cari concittadini, un mese e mezzo fa di questo “moviolone del giorno dopo”, ero pronto a far parte anch’io. A salvarmi, se cosi’ si puo’ dire, e’ stato il ‘magone’: un groppo che mi e’ rimasto in gola, dalla mattina del 24 giugno, quando aprendo il mio ipad sul sito della CNN ho letto la parola “Leave” a tutta pagina.
Si’ perche’, per me, come per tanti della mia generazione, e di generazioni precedenti e successive alla mia, l’Inghilterra non e’ solo un’altra nazione Europea. “L’Inghilterra ci ha aiutato a crescere” ha scritto una lettrice di Beppe Severgnini – mia coetanea che probabilmente si sentiva come me – in una lettera aperta sul Corriere: non potrei essere piu’ d’accordo!
Basta andare in un qualsiasi negozio di abbigliamento per teen-ager e vedere su quanti capi ed accessori campeggi lo “Union Jack”, quelle due croci rosse intrecciate su sfondo blu, (che in realta’ altro non sono che la sovrapposizione, delle bandiere di Inghilterra, Scozia e Galles) per rendersi conto del fascino che quella terra dove piove sempre e dove si mangia malissimo (stereotipi azzeccati, ve l’assicuro) esercita, da sempre, sui piu’ giovani. Lo stesso fascino che la “Perfida Albione” (che poi cosi’ perfida non e’) esercitava, magari per motivi diversi, sulle stesse fasce d’eta’ dieci , venti, trenta, quaranta anni or sono … per intenderci, dai Beatles in poi!
Pensateci bene, cari concittadini, ad eccezione delle onnipresenti stelle e strisce americane e qualche crocetta scandinava su giacche a vento e cappucci per appassionati di sport invernali, quali altri vessilli europei avete mai visto appiccicati su borse, scarpe e cappellini? Quando e’ stata l’ultima volta che avete visto una T-shirt con la bandiera del Belgio, o dell’Ungheria o del Portogallo? … ecco, appunto!
C’e’ poco da fare: le mode, la musica, i look e in fondo molte delle idee che animano dal dopo guerra la sottocultura giovanile nascono li’, da li’ vengono, e tutti inevitabilmente seguono a ruota. In altre parole, nell’esterofila Italia, cosi’ come negli ‘americocentrici’ Stati Uniti, nell’imaginario collettivo tutto cio’ che e’ inglese diventa automaticamente “figo” mentre tutto il resto rimane semplicemente francese, tedesco, spagnolo e cosi’ via. (In America addirittura viene catalogato sotto un piu’ generico “Europeo”).
Poi crescendo il fascino rimane: magari lo zainetto dei Duran Duran diventa l’impermeabile di Burberry’s, e il pellegrinaggio, dai negozietti di Carnaby Street o dall’Hyppodrome di Leicester Square, si sposta verso i magazzini Harrods’ o al parco di Wimbledon, ma lo Union Jack sempre “figo” rimane.
E poi, tra le vacanze-studio la ricerca di lavoro senza troppi lacci e lacciuoli, e la lingua, quell’inglese onnipresente di cui ormai tanti italiani abusano a sproposito anche spesso senza saperlo parlare affatto, l’Inghilterra, che dall’Italia e’ di fatto una delle nazioni europee piu’ lontane, sembra paradossalmente la piu’ vicina di tutte; e alla fine ci si sente molto meno “all’estero” a Brighton e a Southampton che, per esempio, a Vipiteno, in provincia di Bolzano – dove il cartello stradale all’entrata del paese dice “Wilkommen zu Sterzing”.
Ma il mio magone, cari concittadini, il mio groppo in gola non ha solo a che fare con le percezioni collettive e generazionali. A quelle, nel mio caso, si aggiunge il fatto che l’Inghilterra, “ha aiutato a crescere” il sottoscritto nel vero senso, e in tutti i sensi, del termine.
Il fatto e’ che dopo l’Italia e gli Stati Uniti, considero l’Inghilterra a tutt’oggi la mia terza casa; e non potrebbe essere altrimenti dopo: tre “vacanze (con la scusa dello) studio” estive in piena adolescenza piene zeppe di “prime volte (dalla prima esplorazione di una grande citta’ internazionale – Londra – senza accompagnatori, al primo bacio (vero!) dato (o meglio, ricevuto!) da una ragazza in una discoteca di Southampton; un anno di progetto Erasmus, alla magica eta’ di 23 anni, con tutte le liberta’ e nessuna delle responsabilita’ dell’essere adulti, in un campus alle porte di Brighton dove tra feste e festini ho conosciuto coetanei da tutto il mondo alcuni dei quali figurano ancora oggi nella lista degli amici piu’ cari; e una serie di ‘ritorni in patria’, negli anni a venire, con ogni scusa possibile, non da ultima un figlio di dieci anni, nato e cresciuto in America, eppure con un inspiegabile ossessione (forse genetica?) per lo Union Jack e tutto cio’ che rappresenta, al punto da pitturarselo sulle guance durante le partite dei mondiali.
Un luogo familiare insomma, rassicurante ed eccitante allo stesso tempo, come la casa di una vecchia zia con la permanente, magari con le meches turchine, dalla quale impari sempre qualcosa, che ti prepara uova, bacon e quei fagioli dolciastri in salsa di discutibile pomodoro che dopo aver schifato in adolescenza adesso piacciono tanto anche a me, dove pero’ vive anche un cugino con la cresta e le borchie, che finito di mangiare ti porta in camera sua e ti fa sentire l’ultima canzone di quella nuova band e che magari ti insegna anche un paio d’accordi che non sapevi per suonarla meglio …
Certo l’Inghilterra di cui parlo io si riduce a Londra e zone limitrofe dove – si sa – la stragrande maggioranza della popolazione ha votato per rimanere in Europa. L’altra Inghilterra, quella che ha scelto il “leave”, devo dire la conosco poco, e poco so delle frustrazioni degli operai disoccupati delle acciaierie di Leeds o dei cantieri navali di Liverpool. Posso solo limitarmi a dubitare che la Brexit porti loro quei benefici promessi da populisti e demagoghi assortiti che li hanno indotti a votare cosi’ … ma, questa, cari concittadini, e’ gia’ analisi geopolitica, nella quale in questo caso, ripeto, non voglio, e soprattutto non riesco, a cimentarmi.
Di sicuro non con questo magone, questo groppo in gola, che non va ne su e ne giu’, da quando, la mattina del 24 gugno scorso, ho saputo che da adesso in poi per andare a trovare quella zia coi capelli turchini e quel cugino un po’ punk nella mia terza casa, non solo devo telefonare prima ma addirittura chiedere il permesso.