Chissa’ cosa dira’ il presidente Barack Obama nel suo appello televisivo alla nazione previsto martedi’ sera per convincere gli americani a sostenere l’attacco alla Siria di Bashar Assad?
Non sara’ facile, per un premio Nobel per la pace salito alla Casa Bianca anche grazie alle critiche mosse al suo guerrafondaio predecessore, raccogliere abbastanza sostegno sia tra la gente comune che soprattutto al Congresso, per un’azione militare tanto simile (almeno in queste fasi iniziali) alla sciagurata avventura Irachena di George W. Bush, al punto che Obama in conferenza stampa da San Pietroburgo si e’ sentito di puntualizzare : “guardate che stavolta (“stavolta” in realta’ non l’ha detto ma l’ha lasciato intendere chiaramente) le prove non le abbiamo costruite e non stiamo usando le armi chimiche come pretesto per chissa’ quale oscuro disegno geopolitico.”
Magari “stavolta” puo’ anche darsi che sia vero, e che come dice lui non punire, dopo averlo minacciato a chiare lettere – il regime di Damasco per l’uso di un arma odiosa (come se tutte la altre non lo fossero), equivale a perdere la faccia nei confronti della comunita’ internazionale e soprattutto ad apparire un semlpice “can che abbaia”, legittimando altri regimi a fare altrettanto.
Ma gli americani – o almeno gran parte di essi – un’altra guerra proprio non la vogliono: da quelli – e sono tanti – che la Siria non la sanno nemmeno trovare sulla mappa fino ai parlamentari piu’ disincantati che ne conoscono, o se non altro hanno gli strumenti per intuirne, le implicazioni economiche e sociali sul fronte interno e quelle politiche (pericolosissime) sul piano internazionale.
L’Iraq, a dieci anni dall’invasione, giustificata ricordiamo da fantomatiche “armi di distruzione di massa” ormai sulla mappa lo trovano tutti e giustamente lo identificano come il buco nero in cui sono stati gettati, insieme a migliaia di giovani vite americane, i miliardi di dollari di avanzo in bilancio con cui era iniziata l’era Bush. Oltre ad averne abbastanza di vedere bare avvolte dalle stelle e strisce tornare da luoghi del mondo di cui non gli e’ chiara l’importanza strategica, l’americano medio capisce anche che la guerra costa e che per quanto il suo presidente parli di non mettere truppe sul campo e di attacco limitato, chirurgico o quant’altro la possibilita’ di essere risucchiati da un altro buco nero e’ quanto mai reale. Specie con le minacce di rappresaglie terroristiche dall’Iran e l’opposizione netta della Russia di Putin.
Emblematiche in questo senso le immagini passate e ripassate dalle TV del senatore John McCain, uno de sostenitori piu’ convinti dell’attacco, bombardato a sua volta da critiche durante un town hall meeting (un incontro con i cittadini al municipio) della sua Phoenix in Arizona.
Eppure finora sembrano prevalere le colombe, specie dopo il G20, dove il sostegno internazionale a macchia di leopardo ottenuto ricorda anche in questo caso la raffazzonata “coalizione dei volenterosi” contro l’Iraq dei tempi di George W. Gli argomenti contro l’intervento sentiti finora vanno dal inutilita’ di un attacco limitato, ai costi economici e politici dell’operazione, fino ai dubbi – giustificati – che colpendo Assad si vada ad aiutare una coalizione di ribelli tutt’altro che filo occidentali.
Lunedi’ comincia il dibattito vero e proprio, mentre le grandi manovre dietro le quinte per ottenere i voti sono gia’ cominciate da un po’. E martedi’ sera un presidente che, come lui stesso ha ricordato, “fu eletto per concludere le guerre e non per iniziarle” paradossalmente mettera’ al servizio dei falchi tutto il peso della Casa Bianca.
Non e’ detto che funzioni. Cosi’come non e’ detto che l’attacco non avvenga anche senza l’appoggio del parlamento. Dopo tutto in America il presidente e’ per Costituzione il capo delle forze armate al quale in caso di guerra spetta comunque l’ultima parola. Non a caso, a San Pietroburgo, alle tante domande su cosa succedera’ in caso di voto negativo del Congresso si e’ guardato bene dal rispondere.