Ricordate l’omicidio di Treyvon Martin, cari concittadini? Se sì saltate le prossime 270 parole.
Se no, o se “così così”, leggetele: vi aiuteranno a riflettere su una nazione che, nonostante tutti crediamo di conoscere, continua a stupire – anche chi, come il sottoscritto non solo ci vive, ma la osserva e la racconta, da un bel po’.
Una piovosa sera di Febbraio dell’anno scorso, George Zimmerman, ronda di quartiere di Sanford, sobborgo di Orlando, in Florida, avvistò il diciassettenne Trayvon Martin, aggirarsi tra le villette a schiera col cappuccio della felpa in testa. In zona c’erano già state una serie di rapine e lui, legalmente provvisto di pistola carica, pensò che se ne stesse per compiere un’altra. La polizia locale (che lo conosceva bene, sia per le ripetute segnalazioni da vigilante sia per i suoi tentativi senza successo di diventare egli stesso un agente) lo sconsigliò per telefono di seguire il ragazzo sospetto, “tieni gli occhi aperti,” gli dissero “ma resta in macchina”. Zimmerman al contrario scese, lo seguì, e lo affrontò – a parole. Probabilmente la conversazione non fu delle più cordiali, visto che tra lui e il ragazzo, che stando alle versioni ufficiali stava tornando a casa dallo spaccio per vedere una partita di basket col padre, seguì una colluttazione. Qualche minuto dopo (come da foto mostrate al processo) la ronda aveva il naso rotto e qualche piccola ferita alla nuca; il ragazzo era morto, ucciso da un colpo al cuore sparato da distanza ravvicinata.
Ebbene, cari concittadini, dopo tre settimane di processo trasmesso in TV minuto per minuto (anzi “gavel to gavel” come dicono qui, ovvero dal primo all’ultimo colpo di martelletto del giudice) George Zimmerman è di nuovo un uomo libero – libero addirittura di riprendere in mano una pistola – assolto da una giuria popolare di sei donne che dopo aver ascoltato ore e ore di testimonianze e telefonate al 911 ( il 113 americano) fatte dai vicini durante la lite terminata in tragedia, ha ritenuto che secondo le leggi della Florida ci fossero gli estremi per la legittima difesa.
In fondo era esattamente quello che aveva pensato la polizia locale che, dopo averne ascoltato la versione dei fatti, rimandò Zimmerman a casa quasi subito suscitando l’ondata di clamore a livello nazionale che, al tempo, indusse la magistratura della Florida a ripensarci e portare Zimmerman sul banco degli imputati e che nelle ultime tre settimane ha trasformato un apparentemente semplice caso di omicidio colposo (come ce ne sono tanti) in un altro “Caso OJ Simpson”. Proteste di piazza comprese.
Ma perché’ il caso ha suscitato e suscita tanto interesse, al limite del voyerismo giuridico? Va detto che, specie in tempi di crisi, i processi in diretta, come riempitivi a buon mercato, sono una manna per i canali allnews, e non solo. Ma se la faccenda non interessasse davvero, i telespettatori dopo un po’ cambierebbero canale e i mezzibusti troverebbero altro di cui disquisire fino alla nausea. Invece se a processo finito si fa addirittura (non me ne voglia Aldo Biscardi) il “processo al processo” un motivo deve pur esserci.
E c’è cari concittadini, c’è eccome: si chiama “razza”: malgrado nessuno dei protagonisti dentro o fuori l’aula del tribunale di Sanford l’abbia nominata espressamente questo tabù che gli americani continuano a illudersi non sia più tale è stato, dall’inizio alla fine, quello che qui si chiama “L’elefante nella stanza”.
Il fatto è che il povero Treyvon – pace all’anima sua – era nero. A parte il fatto che, se fosse stato bianco, ispanico, asiatico o quant’altro non se ne sarebbe accorto nessuno, la cosa più importante che la difesa è riusicta a dimostrare è che il fattaccio, a prescindere dalla razza, sarebbe successo lo stesso. Non a caso all’epoca dei fatti le TV passarono giorni interi a cercare di capire se Zimmerman durante l’inseguimento mentre era al telefono con la polizia avesse, sussurrato, tra i denti un insulto razziale. Evidentemente no, visto che nemmeno l’accusa è riuscita a dimostrarlo. Dunque cade il “racial profiling” il pregiudizio razziale, l’unica premeditazione che in questo caso contava davvero, e la cosa diventa un semplice diverbio finito male, che secondo le leggi della Florida può anche concludersi con un ragazzino di 17 anni con un proiettile nel cuore, e il vigilante fai-da-te che lo ha sparato, libero di tornare, arma in pugno, a fare il castigamatti.
Magari se invece di ammazzarlo l’avesse chiamato “orango” adesso Zimmerman sarebbe in galera. O se non altro costretto alla gogna mediatica e all’ostracismo sociale e professionale – come è successo ultimamente a Paula Deen, famosissima cuoca televisiva, per aver semplicemente ammesso di aver usato, in passato, la parola “negro”, che nessuno, (non sia mai!) neppure per diritto di cronaca, si sogna di ripetere in TV. La chiamano: “the ‘N’ word” la parola che inizia per “N” – come si fa quando si parla di parolacce ai bambini.
Intendiamoci, cari concittadini, gli epiteti razziali sono sempre da condannare – ci mancherebbe! – specie se proferiti da ex ministri nei confronti di ministri attuali (ma questo è materiale per un altro articolo, su certi partiti che certi ex-ministri non solo se li tengono stretti, ma addirittura li fanno diventare vice presidenti del Senato!).
Purtroppo però, in un’America che cerca disperatamente di rimediare in apparenza, a secoli di razzismo (nella sostanza tutt’altro che estinto) le parole, evidentemente, contano più delle pallottole.