Si conclude con l’arresto del secondo terrorista della Maratona la caccia all’uomo che ha tenuto col fiato sospeso tutta l’America
“L’ hanno preso vivo!” Alle 8:45 di ieri sera la notizia dell’arresto di Dzhokar Tsarnaev, il 19 enne di origine cecena, sospettato di essere uno dei due autori dell’attentato alla maratona di Boston, rimbalza immediatamente su tutti i network televisivi, le stazioni radio, i social network, i siti web: per Boston, e per l’America intera, collegata in diretta, è la fine di un incubo. L’arresto ha concluso una gigantesca caccia all’uomo, in corso dalla notte di giovedì, quando verso le due, l’altro presunto terrorista, il fratello maggiore Tamerlan di 26 anni era rimasto ucciso nel sobborgo di Watertown dopo un violento scontro a fuoco con la polizia.
Tutto era cominciato nel campus dell’MIT (Massachusetts Institute of Technology) nella vicina Cambridge dove i due, già indiziati per aver ucciso tre persone e ferito altre 170 nel peggiore atto terroristico dopo l’11 settembre sul suolo americano, avevano commesso un altro crimine altrettanto insensato: l’omicidio di un agente di polizia assegnato alla sicurezza dell’università e il ferimento di un autista della metropolitana. Poi l’inseguimento, e la sparatoria – raccontata in diretta TV da uno dei network locali – che ha squarciato il silenzio notturno del pacifico sobborgo con raffiche di mitra (oltre 200 bossoli sono stati rinvenuti nella zona) e addirittura esplosioni di granate, risultata nella morte di Tamerlan, il maggiore dei due fratelli dinamitardi.
Ma Dzhokar, il minore è riuscito a fuggire e a rimanere nascosto nello stesso sobborgo per altre 18 ore, fino alle 8:45 del giorno seguente appunto, quando dopo un altro scontro a fuoco – stavolta non mortale – è stato stanato dalla barca parcheggiata nel giardino di una villetta in cui si era rifugiato probabilmente per l’intera giornata. Il migliore epilogo possibile, in cui, dopo un giorno di surreale coprifuoco che ha coinvolto l’intera città, pochi ormai speravano più. Di fatto, tutto durante la giornata lasciava presagire il contrario: almeno a giudicare dall’enorme spiegamento di forze locali, statali e federali, e dalle precauzioni messe in campo per impedire che il fuggitivo non solo uscisse dal perimetro e facesse perdere le tracce ma che, nell’ipotesi più probabile e temuta, fosse in possesso di materiale o ordigni esplosivi e pianificasse per se – e chissà per quante altre vittime innocenti – una fine spettacolare ed eclatante.
Per fortuna niente di tutto questo: l’arresto e avvenuto senza spargere altro sangue – se non quello dell’arrestato (non è chiaro se ferito nella guerriglia suburbana della sera prima, o nell’ultima breve sparatoria prima della cattura). A quel punto la gente di Watertown, chiusa in casa fin dalla mattina per ordine delle autorità, si è riversata in strada con le bandiere americane ad applaudire i poliziotti e gli agenti speciali che dopo un giorno intero di appostamenti e perquisizioni porta a porta smantellavano i blocchi stradali e lasciavano la zona per andarsi a godere un po’ di meritato riposo. E finalmente anche Boston, il cui sospiro di sollievo collettivo stasera è quasi palpabile, si prepara a trascorrere la sua notte più tranquilla da lunedì scorso. Eppure anche tra i cori da stadio che scandiscono “U-S-A, U-S-A” e le dichiarazioni pubbliche di soddisfazione di sindaco, governatore e capo della polizia, è chiaro a tutti che il proverbio “tutto è bene ciò che finisce bene” (identico anche in inglese) proprio non si applica alla conclusione, per quanto incruenta, di questa settimana di angoscia collettiva.
Rimangono 4 morti, i 3 della maratona più il poliziotto 26enne di ieri, (al bilancio si aggiunge in realtà anche il primo attentatore – sebbene, comprensibilmente non faccia pena a nessuno), ricordati per nome, uno per uno, anche dal presidente Barack Obama, nel discorso alla nazione tenuto un’ora dopo l’arresto. Nell’occasione, Obama ha ringraziato le forze dell’ordine per l’ottimo lavoro svolto e sottolineato quanto sbagliato e controproducente sia in questi casi , sull’onda della rabbia e del dolore, cedere a generalizzazioni etniche e religiose. Rimangono i feriti – una sessantina ancora ricoverati negli ospedali – tra i quali quelli mutilati per sempre, dopo l’amputazione di uno o entrambi gli arti inferiori. Rimangono gli interrogativi su chi siano veramente i fratelli Tsarnaev, se siano lupi solitari o, al contrario, esecutori in forza ad organizzazioni più complesse e strutturate, e sul perché’ due ragazzi residenti in America da anni e, secondo le tante testimonianze raccolte oggi, apparentemente integrati nella società, abbiano deciso di compiere un atto di tale indiscriminata violenza e cattiveria ; in questo senso, il fatto che uno di loro sia sorprendentemente sopravvissuto aiuterà forse a fornire risposte.
Ma soprattutto rimangono le immagini e il ricordo di una città trasformata in 15 secondi (il tempo intercorso tra le due esplosioni) da una delle metropoli più belle, internazionali, accoglienti e tranquille degli Stati Uniti nell’epicentro di una delle vicende più angoscianti della storia americana, recente e non. Un crescendo surreale di transenne, autoblinde, squadre speciali, coprifuoco, sparatorie tutto raccontato in diretta dalle TV che hanno praticamente trasferito qui l’intero staff giornalistico – nonostante nel frattempo l’esplosione di una fabbrica di fertilizzanti in Texas abbia causato molti più morti e almeno altrettanti feriti (anch’essi ricordati brevemente – e giustamente – nel discorso di Obama).
Ma il terrorismo, per forza di cose, fa più notizia della fatalità. Anche perché’ al dolore, e alla paura che un’altra disgrazia simile possa succedere di nuovo, aggiunge un senso di incertezza e profondo disagio nel sapere non solo che nessun luogo è sicuro ma che il diavolo potrebbe essere addirittura il tuo vicino di casa – come hanno dichiarato molti dei residenti evacuati nella zona attorno all’abitazione dei Tsarnaev a Cambridge circondata per tutto il giorno dagli artificieri nel timore che contenesse ordigni inesplosi. “Questa città è forte, si rialzerà e tornerà a correre più veloce di prima,” aveva detto Obama in cattedrale giovedì scorso al termine della commemorazione per le vittime dell’attentato. Speriamo abbia ragione. Per ora i Bostoniani vanno a letto, con la consapevolezza, da un lato che non verranno svegliati da altri spari, altre esplosioni o altre “breaking news”, ma dall’altro che le immagini di questa settimana dell’orrore continueranno a lungo a turbar loro il sonno .