Ferita, attonita e stordita. Così la città americana si è svegliata il giorno dopo l’esplosione delle due bombe
Il cielo terso e la brezza primaverile, segni graditi e tardivi di una bella stagione che da queste parti sembrava non voler arrivare mai, rendono ancora più stridente e surreale il risveglio di una città non solo profondamente ferita ma anche e soprattutto attonita nel riscoprirsi, cosi come tutta la nazione, vulnerabile al terrorismo.
Anche il 12 settembre di quasi dodici fa la meteorologia cozzava con lo stato d’animo collettivo di una città, New York, ancora invasa dai fumi delle torri cadute. I traumi, si sa, fanno più male il giorno dopo, quando il calo dell’adrenalina della sopravvivenza fredda i muscoli e permette al cervello di riflettere in modo analitico su quanto è successo. E qui, a Boston, il “day after” del peggiore attacco terroristico subito dagli Stati Uniti su suolo patrio dopo, appunto, l’11 settembre, è, semplicemente, un giorno orribile.
E sebbene numericamente non ci sia paragone tra i tre morti di ieri e i tremila del 2001, l’aria che si respira almeno qui, nell’epicentro della tragedia, rimanda ai giorni in cui, almeno così si disse, l’America perse per sempre l’innocenza.
Tanto per cominciare, il bollettino di guerra che pian piano trapela dagli ospedali – che qui sono tra l’altro i migliori al mondo: 3 morti (tra i quali un bambino di otto anni la cui foto, sorridente, continua a circolare impietosa su tutti i network), 170 feriti, di cui almeno 20 molto gravi, 10 già sottoposti ad amputazioni. Il fatto che le ferite siano da “shrapnel” cioè da schegge, chiodi, palline di ferro e quant’altro inserite di proposito nei due ordigni per massacrare più gente possibile – gente colpevole in questo caso, solo di aver approfittato della bella giornata di sole per partecipare, magari con tutta la famiglia, in prima persona a quella che qui è da sempre una festa collettiva della storia americana (la maratona di fatto coincide con la ricorrenza dell’inizio della guerra d’indipendenza dagli inglesi) e dello sport.
Poi c’è l’incertezza sul perché, sul chi , e sul fatto che quel “chi” è ancora annidato e mimetizzato tra i circa 3 milioni di abitanti che popolano Boston e il suo hinterland residenziale; le linee verdi per aiutare gli investigatori locali ma soprattutto federali – vista la natura del crimine – a trovare il bandolo di una matassa che potrebbe portare ovunque: un gruppo terroristico internazionale, un’organizzazione eversiva interna o semplicemente un pazzo sanguinario, magari istigato – visto che alla maratona erano presenti le famiglie delle vittime di Newtown dove nel dicembre scorso furono uccisi a colpi di mitra venti bambini di scuola elementare – dai veleni che animano il dibattito pubblico, e ormai anche parlamentare, sul “gun control”, il controllo e i limiti sul possesso delle armi da fuoco.
Oggi l’unica certezza è emersa dalle parole del Presidente Barack Obama, che in un breve ma intenso discorso alla nazione ha detto espressamente “attentato terroristico” e ha fugato la cautela del giorno prima spiegando “se c’è una bomba in mezzo alla folla, sempre e comunque di terrorismo si tratta”. E dopo aver assicurato che tutte le risorse dello stato federale saranno messe a disposizione per trovare i responsabili e punirli a dovere, un Obama, visibilmente turbato ma risoluto al tempo stesso, ha elogiato la solidarietà spontanea, dai corridori stremati andati negli ospedali a donare sangue, agli studenti di medicina corsi fuori orario ai loro reparti, fino ai sacerdoti e i semplici cittadini che hanno aperto chiese e case private ad atleti confusi ( molti dei quali stranieri con poca conoscenza dell’inglese) nelle prime ore di panico e di caos. “Noi non ci lasciamo terrorizzare da nessuno” ha concluso Obama, “anzi, in questi casi, l’America dà il meglio di sé.”
E oggi l’America si stringe attorno alla sua città madre, non solo la più antica, ma quella che iniziando la rivolta anti britannica 238 anni fa le diede i natali, una città dove ieri, figuranti in costume hanno dato vita a una serie di battaglie finte e che oggi invece, con il centro cordonato, transennato, e popolato solo di squadre speciali in cerca di indizi – proprio come New York dodici anni fa – ha l’aspetto inquietante del fronte di una guerra vera.