Una delle più antiche e prestigiose maratone del mondo è stata segnata da un dramma inspiegabile: 3 morti e oltre 150 feriti per l’esplosione di due bombe in prossimità dell’arrivo.
Due esplosioni a 15 secondi e a cento metri di distanza l’una dall’altra: e la festa si trasforma improvvisamente in tragedia. Tre i morti accertati, oltre 150 i feriti, una ventina molto gravi, e la probabilità’ alta, come sempre in questi casi, che il bilancio lieviti col passare del tempo. Tutti tra gli spettatori – e gli atleti – convenuti nel centro di Boston per la maratona più antica e prestigiosa d’Amerca, uccisi, mutilati o semplicemente – si fa per dire – feriti in prossimità della linea del traguardo, ovvero nel punto più affollato dei 42 chilometri di tracciato, dove appassionati, giornalisti e curiosi si accalcano per cogliere l’entusiasmo non solo dei vincitori ufficiali ma anche e soprattutto della gente comune, dei corridori della domenica nel momento più bello, quello in cui vincono la sfida con se stessi.
Due ordigni, dunque, piazzati con l’intento chiaro e premeditato di uccidere e di fare del male a più persone innocenti possibile. E con queste premesse si va oltre la tragedia: la festa in questo caso si trasforma in un incubo.
Il giorno in cui si corre la maratona, a Boston, si chiama “Patriot Day” – ovvero il giorno in cui la culla della rivoluzione americana si ferma (unica città negli USA ad avere per questo il giorno di ferie) per ricordare – con tanto di rievocazioni storiche in costume dove abbondano salve di cannone e di moschetto – gli eventi del 19 Aprile 1775, quando le truppe regolari inglesi e i coloni stanchi di dipendere dalla corona si fronteggiarono militarmente per la prima volta dando inizio a quella rivolta che sfocio poco più di un anno dopo il 4 luglio 1776 nell’indipendenza dall’impero britannico.
Qui lo chiamano “the shot heard around the world” (lo sparo udito dal mondo intero).
Ieri, 238 anni dopo, paradossalmente è successa la stessa cosa: il botto delle 14:50 è rimbalzato immediatamente in tutto il globo risvegliando immediatamente lo spettro del terrorismo quando gli americani cominciavano quasi a non pensarci più. La conferma che di terrorismo (interno o internazionale che sia) si trattava è arrivata 15 secondi dopo, a 100 metri di distanza, rafforzata dalla notizia di un terzo dispositivo trovato e disinnescato in un albergo adiacente.
Proprio come l’11 settembre 2001, solo che in questo caso non servivano i minuti intercorsi tra i due aerei dirottati sulle torri del World Trade Center per attirare l’attenzione dei media. I media all’arrivo della maratona (la numero 117) c’erano già e hanno ripreso tutto in diretta, compresi gli atleti confusi che invece di correre verso il traguardo cambiavano direzione per salvarsi la vita.
Stavolta però in quelle esplosioni non c’era nessun eroismo: solo una vigliaccheria e una cattiveria senza fine. Tra le vittime c’è un bambino di 8 anni con l’unica colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Ma vittima dell’attentato di ieri è un’intera città che dal terrorismo pensava – o sperava – di essere immune e che oggi si risveglia teatro del peggior attacco su suolo americano da quella terribile mattina di settembre di dodici anni fa.
Al tramonto di ieri, la griglia di viali alberati del centrale e signorile quartiere di Back Bay, solitamente affollata di auto e di pedoni anche nelle serate invernali più gelide, (e particolarmente vivace nelle serate di festa) era una gigantesca, silenziosa e deserta “scena del crimine” chiusa da barriere, transenne e i classici nastri gialli con scritto “Police Line Do Not Cross”, (Cordone di Polizia: Limite Invalicabile) tirati da un semaforo all’altro. All’interno solo poliziotti, soldati e membri, armati, della Guardia Nazionale: unica eccezione, a rendere il tutto ancora più surreale, gli ufficiali della maratona che presidiavano mucchi di sacche numerate contenenti effetti personali dei maratoneti i quali, bloccati nel mezzo della competizione e tenuti per ore – quando ancora non si sapeva bene cosa stesse succedendo – in luoghi sicuri lungo il tracciato, dovevano ancora recuperare.
“Oggi è cominciata male ed è finita peggio,” si lamenta infreddolito Luca Zani, venuto da Treviso per correre la sua seconda maratona di Boston, con ancora in dosso i pantaloncini e il pettorale mentre riprendendo le sue cose cerca di capire se la via per tornare in albergo sia o meno tornata accessibile: racconta di essersi svegliato con la febbre, di aver ceduto al 16esimo miglio e poi di essere stato tenuto in una chiesa, per ore, ad aspettare istruzioni sul da farsi. “E frustrante,” dice ma poi pensandoci un attimo conclude “ certo che stasera c’è gente che sta molto peggio di me.”
“Una Giornata così lascia in bocca un sapore davvero amaro,” gli fa eco Adriana Calabresi, atleta milanese alle prese con gli stessi problemi logistici del suo “collega” trevigiano. Alla sua prima maratona Bostoniana, anche lei, come molti dei 23,000 partecipanti alla manifestazione, è stata fermata a metà strada e dirottata in un centro di raccolta: “Uno viene qui per una festa dello sport e torna a casa col ricordo di una tragedia, non è giusto!”
Per ora le autorità non rilasciano alcun dettaglio sull’indagine in corso, un’indagine massiccia e capillare che coinvolge forze di polizia locali, statali e soprattutto vista la natura del crimine, federali; semmai le informazioni per ora vengono richieste ai cittadini, sollecitati a riportare qualsiasi indizio, o presunto tale, che possa aiutare ad individuare il responsabile (o i responsabili) dell’attentato. Importantissimo sarà, per l’America intera, scoprire chi e soprattutto perché’. Ma ancora più importante sarà per i Bostoniani, impedire che la tragedia, anzi l’incubo di ieri, a prescindere dai colpevoli e dalle loro motivazioni, li cambi per sempre.