Alla fine di un venerdì di sangue e di violente proteste in tutto il mondo islamico, restano otto morti. E la paura di una nuova ondata di terrorismo antiamericano.
Mentre i marines in alta uniforme, solenni e po’ robotici, rendevano omaggio alle quattro bare coperte di stelle e strisce appena arrivate, da Bengasi, alla base di Andrews, il mondo islamico esplodeva in una protesta di proporzioni globali che ha coinvolto sedi diplomatiche (americane e non solo) istituti, scuole, addirittura fast-food, insomma i simboli degli USA e dell’occidente in almeno 20 nazioni del mondo. Così, con il presidente Barack Obama e il suo ministro degli Esteri, Hillary Clinton, ancora commossi nel ricordare quelli che hanno definito “eroi” e “patrioti” (l’ambasciatore Chris Stevens, il primo caduto “sul campo” dal 1979, e i tre esperti uomini di scorta Sean Smith Tyrone Woods e Glen Doherty) sono cominciate ad arrivare, a raffica, le immagini da Tunisia, Sudan, Libano e via via tutto il mondo islamico, dal Marocco all’Indonesia passando per Nigeria, Yemen e Bangladesh.
Alla fine di questo venerdi’ di sangue annunciato, restano otto morti, centinaia di feriti, e la sgradevole e scoraggiante sensazione collettiva, almeno negli Stati Uniti, che la “Primavera Araba,” come hanno già detto e scritto in tanti, si sia già trasformata in inverno. Ci provano, Obama, la Clinton, e una serie di esperti in TV a spiegare che, almeno in Nordafrica, si tratta di minoranze di fanatici, arrabbiate perche’ escluse dai nuovi governi, in Paesi dove l’America aiuta i musulmani moderati a costruire istituzioni democratiche, eccetera. Ma le troppe immagini di bandiere bruciate, e lacrimogeni, distraggono, inevitabilmente, l’americano medio, dalla lucida analisi geopolitica. Specie se, come ieri, provengono da troppe nazioni diverse. E in un giorno di lutto, il dolore fa presto, anche qui come nei Paesi arabi, a trasformarsi in rabbia – passando per sconcerto, risentimento e, non ultima, la paura di una nuova ondata di terrorismo antiamericano.
E pensare che la causa, anzi il pretesto, di tutto e’ ufficialmente un film, gravemente offensivo verso il profeta Maometto e l’islam in generale, il cui trailer su Internet, tradotto in arabo, avrebbe infuriato i musulmani di tutto il mondo. Realizzato male e interpretato peggio, il film (in realta’ chiamarlo cosi’ e’ una parola grossa vista l’infima qualita’) e’ stato definito “disgustoso” dalla Casa Bianca e “deprecabile” dal presidente Napolitano. Ma ancora piu’ “disgustoso e deprceabile” e’ l’intento palesemente provocatorio con cui e’ stato prodotto e fatto circolare. Il regista (anche “regista” in questo caso e’ una parola grossa) si era spacciato, alla stampa, per ebreo – addirittura raccontando di essere stato finanziato dalla comunita’ ebraica. Poi si e’ scoperto che dietro lo pseudonimo Sam Bacile si nasconderebbe tale Nakoula Besseley Nakoula, un cristiano copto, di Los Angeles, si pensa di origini egiziane, con precedenti per frode fiscale e furto plurimo di identita’. Gli attori, veterani del peggiore porno-soft, adesso raccontano (forse anche per paura di rappresaglie) di essere stati raggirati e che le scene incriminate – tante per la verita’ – siano state aggiunte in un secondo tempo.
Tutto disgustoso e deprecabile insomma e, tutto sommato, anche abbastanza squallido: compreso il tentativo di approfittare politicamente della situazione in piena campagna elettorale. L’ha capito anche Mitt Romney, che dopo le sparate dei primi giorni contro l’operato di Obama in politica estera ha abbassato i toni – forse aiutato dai sondaggi, subito in calo, a ricordarsi che, in odore di crisi internazionale, gli americani vogliono unita’ e non bagatelle di politica interna. Sparando sparando pero’, il candidato repubblicano almeno un bersaglio lo ha centrato, parlando della liberta’ di espressione, fondamento dell’identita’ americana, da difendere a tutti i costi, a prescindere dai contenuti.
Un principio sacrosanto da queste parti, tanto che Google, proprietaria di Youtube ha gia’ fatto sapere a Casa Bianca e Dipartimento di Stato che il trailer incriminato – un video, che a mezzanotte di venerdi’ aveva gia’ superato la soglia (ragguardevole quanto immeritata) di 5 milioni di contatti – restera’ al suo posto. Certo, a candidati e ad aziende affermare quel sacrosanto principio a voce alta riesce molto piu facile che a un presidente – specie con una ventina di ambasciate sotto assedio e tutte le altre in stato di massima allerta.