Mitt Romney, come si usa dire nel calcio, vince ma non convince. Non convince nemmeno i sostenitori, nella sua citta’, a riempire del tutto la sala – neanche grandissima – affittata per il discorso di rito. Ieri all’hotel Weston di Boston dove ha scelto di apparire alla fine della giornata piu’ importante, scarseggiavano sia I supporter (a prima vista quasi meno numerosi dei giornalisti), sia l’entusiasmo – almeno quello spontaneo, forse anche a causa dei numeri che scorrevano sugli schermi giganti. “Finalmente stasera dopo due mesi torno a casa mia”, aveva detto Romney ai fans, – mentre un po’ robotici, come lui, scandivano cori da stadio. Ma visto il risultato finale di questo “Supertuesday”, probabilmente non dormira’ tranquillo nemmeno nel suo letto. Tutt’altro che decisivo infatti, per la corsa alla nomination, il 6 a 3 in suo favore ai danni del diretto rivale Rick Santorum, con cui si e’ concluso un “super martedi’” elettorale che quest’anno, con soli dieci stati in palio, (il decimo, quello della Georgia, e’ andato come da pronostico a Newt Gingrich) si annunciava un po’ meno super del solito.
Per Romney, tutte, o quasi, annunciate le vittorie di ieri sera. A cominciare, ovviamente, dal plebiscito in Massachusetts (72% dei suffragi), dove ha abitato per gran parte della sua vita adulta diventandone anche governatore. Altrettanto prevedibile l’affermazione (40%) nel vicino Vermont. Addirittura troppo facile quella in Virgina (60%), dove sulla scheda, per disguidi amministrativi non figuravano ne Gingrich ne Santorum; agevole anche il successo in Idaho nell’estremo nordovest dove il caucus tenuto al palazzo dello sport di Boise, la capitale, pesava piu’ in termini numerici di tutti quelli del resto dello Stato messo assieme; piu’ che altro simbolica, infine, quello in Alaska, dove in tutto hanno votato circa 10,000 persone.
L’Ohio invece – il sesto Stato vinto da Romney nell’ “abbuffata” elettorale di ieri sera – merita un discorso a parte. Da tutti considerato l’ago della bilancia di questa lunga giornata elettorale, lo Stato di Cleveland, Cinicnnati, e Columbus, a meta’ strada tra l’urbanizzata costa Est e le sterminate pianure centrali non ha deluso le aspettative, dando vita a un testa a testa, trasmesso in diretta nazionale, risoltosi solo a tarda notte. Alla fine Romney l’ha spuntata anche li’, ma con un margine minimo (12,000 voti circa, su piu’ di un milione in totale) e che appare ancora piu’ risicato se si considera che la cifra spesa in Ohio da Romney, in spot elettorali e propaganda varia, risulta di cinque volte maggiore rispetto a quella investita da Santorum. Per giunta in Ohio I 66 delegati in palio sono assegnati In modo proporzionale, dunque a conti fatti, come in Michigan la settimana scorsa, un altro pareggio.
Santorum, al contrario, oltre al Nord Dakota – quadratone di prateria spopolato dell’estremo nord – ha messo in carniere, e con margini di tutto rispetto, un paio di Stati importanti e per lui tutt’altro che scontati: Oklahoma e Tennessee, a conferma della popolarita’ del candidato cattolico dagli apparentemente inamovibili principi morali, in quella fascia centrale d’America rurale ed evangelica a cui il pragmatismo un po’ opportunista di Romney proprio non sembra andare giu’. Poi, magari a novembre, ammesso che sia lui il candidato Repubblicano se lo faranno anche piacere, ma per ora non lo votano nemmeno – come dicono gli analisti della CNN, ricordando involontariamente il nostro Indro Montanelli – tappandosi il naso.
Cosi’, malgrado nel conto dei delegati il divario (o lo “spread” come ormai si dice da noi) si allarghi, la corsa e’ destinata a continuare, e non solo tra i primi due. Gingrich ringalluzzito dalla vittoria in casa, in Georgia – l’unica per lui ieri sera e la seconda finora, pesante, tuttavia, con ben 76 delegati in palio – guarda con ottimismo a martedi’ prossimo quando Alabama e Mississippi, due altri grandi Stati del sud dove sa di essere popolare, andranno alle urne. E Ron Paul che non ha ancora vinto niente e probabilmente niente vincera’, se non qualche delegato assegnato qua e la con la proporzionale, non sembra affatto incline ad abbandonare quella che sta praticamente diventando una sua crociata personale contro la Federal Reserve ( la banca centrale) e il coinvolgimento americano all’estero. Al punto che qualche analista Repubblicano, nel timore che sottragga voti preziosi agli altri, comincia gia’ a definirlo “guastafeste”.
E a proposito di politica estera, dalla Casa Bianca nel pomeriggio era arrivato un monito ai candidati che, con classico atteggiamento Repubblicano, avevano auspicato pubblicamente interventi armati contro la repressione in Siria e soprattutto le attivita’ nucleari in Iran: “In campagna elettorale si stanno facendo discorsi rischiosi”, aveva detto Obama in una conferenza stampa convocata strategicamente nel pomeriggio di ieri. “Troppo facile quando al comando dell’esercito c’e’ qualcun altro”. In realtà’ piu’ che dai futuri avversari il Presidente sembrava preoccupato dall’incontro con il primo ministro Nietanyau che in visita in questi giorni negli Stati Uniti ha ribadito il diritto di Israele a difendersi. E il vero guastafeste elettorale, almeno per Obama, potrebbe venire proprio da li’.