Immaginate il campionato di calcio di serie A deciso ogni anno da una partita secca, in campo neutro.
Questa partita, in America, si chiama Superbowl, si gioca dal 1967 ed e’ sempre, immancabilmente, l’evento televisivo piu’ seguito dell’anno. Il fatto che qui lo chiamino football non deve trarre in inganno: quello che il resto del mondo chiama ‘football’ (cioe’ il calcio) qui lo chiamano “soccer”. Il football Americano in realta’ e’ un sorta di rugby piu’ spettacolare e frammentato, con i giocatori, undici per parte anche in questo caso, protetti da caschi e pettorine.
Ma l’interesse con cui gli Stati Uniti seguono la sfida che ne decide il campionato e’ lo stesso di una finale di Champions League; interesse che nelle due citta’ direttamente coinvolte diventa inesorabile e contagiosa passione, (un po’ come ai mondiali quando gioca l’Italia) anche per chi, durante l’anno, di football s’interessa poco o niente.
Ora immaginate due squadre blasonate e rivali (Juventus e Milan per esempio) che si rincontrano, quattro anni dopo una storica finale, persa sul filo di lana dalla squadra che fino a quel punto aveva disputato una stagione perfetta. Immaginate, l’atmosfera che si respirerebbe durante il giorno, a Torino, a Milano e in genere in tutta Italia, prima del calcio d’inizio.
Ebbene quelle due squadre ieri erano i Giants di New York e i Patriots di Boston, questi ultimi gli “scottati” dal 2008. E almeno qui a Boston, da dove scrivo, l’aria di rivincita, alimentata da tutti i mezzi di comunicazione possibili – compresi i cartelloni pubblicitari di banche e negozi – si respirava da un paio di settimane, da quando due domeniche fa i beniamini locali guidati dal quarterback Tom Brady (gia’ famoso di suo e ancora piu’ famoso dopo aver sposato la strapagata top model brasiliana Gisele) avevano avuto la meglio, per un soffio, in casa, in semifinale contro i Ravens di Baltimora.
Occorre dire che non sempre, in America, le squadre professionistiche esprimono un territorio. Come succede per le aziende (perche’ in fondo aziende sono) i team nascono e muoiono con grande facilita’ e con la stessa facilita’ cambiano non solo proprietari, ma anche (cosa inaudita nella vecchia Europa) nomi e sede. Questo vale per tutti gli sport nazionali – baseball, basket e hockey compresi. In piu’ capita spesso che i giocatori entrino in sciopero mettendo a rischio intere stagioni. Quest’anno ad esempio il basket e’ cominciato con due mesi di ritardo e il football per poco non faceva la stessa fine. Non a caso molti sportivi si appassionano ai campionati universitari con giocatori (in teoria) dilettanti e squadre legate agli atenei, dunque impossibilitate per definizione alla mobilita’”.
Eppure, negli anni, nei centri piu’ antichi, come appunto Boston e New York, certe squadre, sono entrate di diritto nel DNA del territorio che le ospita. Nessuno si sognerebbe mai di trasferire altrove la squadra di baseball dei New York Yankees o quella di pallacanestro dei Boston Celtics. Lo stesso vale per il football: ecco perche’ ieri, il Superbowl, con i suoi 110 milioni di telespettatori, aveva tanto il sapore di una “Juve-Milan” con in palio lo scudetto.
E lo “scudetto” – purtroppo per i Bostoniani, anche quelli d’adozione come me – e’ tornato a New York. Anche stavolta per il rotto della cuffia, per una serie di errori offensivi dei Patriots e un ottima prestazione corale dei Giants, guidati, tanto per infuocare ancora di piu’ gli animi, dal quarterback Eli Manning, fratello minore di Peyton Manning, rivale storico del ‘regista’ bostoniano Tom Brady.
Risultato finale: 21 a 17 per New York. Ma nel Superbowl 2012 ci sono altri numeri che contano. Tanto per cominciare, i 250 milioni incassti dalla rete NBC per gli spot pubblicitari, costati alle aziende fino a 4 milioni l’uno. (Di fatto le pubblicita’ del Superbowl sono ormai vere e proprie opere d’arte, e motivo – quanto la partita stessa – per cui molti milioni di americani restano avanti al video fino al fischio finale). Poi ci sono i 63 dollari spesi in media da ogni telespettatore per, abbigliamento, gadget, snack bibite e addirittura televisori nuovi. E il 40% di americani che dichiarano di aver visto la partita a una festa – o a casa d’altri, o a casa propria. In altre parole, il Superbowl ha fatto, come sempre, circolare denaro tra le persone e le ha riunite fisicamente tra loro – due cose di cui in tempi di crisi economica e abuso di social network, da queste parti c’e’ piu’ bisogno che mai.
Infine c’e’ il numero piu’ importante: Zero. Zero incidenti sugli spalti. Zero violenza per le strade. Zero cariche della polizia coi lacrimogeni. Zero striscioni intolleranti e razzisti. Di fatto, nonostante la rivalita’ tra i contendenti, e qualche inevitabile sfotto’ su stampa e televisione, oggi Bostoniani e Newyorchesi tornano – anzi rimangono – amici come prima e nonostante la natura di un gioco che altro non e’ che la metafora sportiva della conquista, violenta, del territorio, gli stadi di football, in America, rimangono luoghi dove poter portare i bambini.