Come l’America vede la fine di B. (Famiglia Cristiana)

Paradossalmente la settimana televisiva americana inizia senza traccia – né sui TG serali né sugli approfondimenti – della caduta di Silvio Berlusconi. Poco importa che il premier uscente sia stato uno dei leader più televisivi, in tutti sensi, dell’occidente, e che le sue dimissioni siano state accompagnate da reazioni popolari “calcistiche” (che in Tv funzionano sempre). Distratti, in parte, da un sexgate di casa loro – un brutta storia di pedofilia che coinvolge un celebre allenatore di football universitario – network e canali “allnews” hanno praticamente ignorato un passaggio di consegne che al contrario giornali, radio e siti web concordano nel definire “storico”.

“La fine di un’era”, sentenziava nella corposa edizione domenicale il New York Times, che apre un intera pagina dedicata all’argomento descrivendo una piazza – e dunque una nazione – al tempo stesso “festosa e preoccupata”. Ma più che sul futuro dell’Italia, con tutte le sue evidenti incertezze, la copertura del quotidiano newyorchese si concentra sulla figura di Berlusconi, uomo e politico. Ne ricorda accuratamente tutte le unicità, negative per lo più: dalla personalizzazione del potere al monopolio dei media, dai guai giudiziari all’immancabile “bunga bunga”. Poi lo liquida così: «Un comunicatore brillante che ha detto agli italiani ciò che volevano sentirsi dire». Stranamente, nessun parallelo con Bill Clinton, né sul Times né altrove, nonostante con il premier uscente il protagonista della politica USA anni ’90 avesse in comune oltre alla grande abilità di imbonitore, anche una serie di – seppur meno roboanti – scappatelle.

Interessante, invece, il paragone personale con Mario Monti, già da molti soprannominato “SuperMario”, come il famoso personaggio dei videogiochi. «Uno che arriva in albergo portandosi la valigia da solo», sottolinea Sylvia Poggioli, storica corrispondente da Roma di NPR, la seguitissima radio pubblica nazionale, «è una novità assoluta e benvenuta, in un Paese dove anche i politici più oscuri godono di privilegi ed entourage giganteschi». Altrettanto benvenuto, secondo lei, è lo stile del premier incaricato, sobrio e misurato, già noto dai tempi di Bruxelles, nel parlare con pubblico e stampa.

«Berlusconi ha cambiato il linguaggio della politica, abbondonando il politichese e rivolgendosi direttamente al popolo», le fa eco James Walston, docente di Relazioni internazionali all’Università americana di Roma, ospite del dibattito radiofonico insieme a Beppe Severgnini, autore di un libro, da poco tradotto in inglese, in cui spiega Berlusconi (o Mr. B) agli stranieri. «A parte il linguaggio però», continua Walston, «per essere uno che per 17 anni si è proposto come l’uomo del cambiamento, non ha cambiato granché».

In realtà un certo immobilismo italiano, e la necessità di uscirne per realizzare le riforme necessarie, emerge un po’ ovunque, dalle analisi più raffinate del Wall Street Journal a quelle più accessibili di USA Today o Time Magazine. Sorprende, ad esempio, che nel pacchetto di proposte per uscire da quello che qui viene definito uno dei momenti più neri della nostra storia economica, non figuri una drastica liberalizzazione del mercato del lavoro (in America l’Articolo 18 della nostra costituzione è quasi fantascienza), e prevale comunque l’idea che, a prescindere dai metodi, l’Italia debba farcela con le proprie forze.

Too big to bailout, “troppo grossa per essere soccorsa”, ripetono gli osservatori, ricordando che nonostante tutto, rimaniamo la terza potenza economica dell’Unione Europea. «L’Italia si re-inventa a ogni generazione, ogni 20 anni circa», conclude il professor Walston nel suo lungo intervento radiofonico. «In realtà non si è mai trasformata del tutto ma ogni volta ne è uscita migliore di prima, e stavolta sembra proprio partire col piede giusto». A questo punto, c’è solo da sperare che abbia ragione lui.

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